Una stanza per distruggere tutto: cos’è una «rage room»

Nato in Giappone, il fenomeno si è rapidamente diffuso in tutto il mondo (e da oggi pure a Brescia). Ecco come funziona e i risvolti psicologici
Alcuni degli attrezzi messi a disposizione dalla rage room di Brescia - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
Alcuni degli attrezzi messi a disposizione dalla rage room di Brescia - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
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Le chiamano «rage room», o in alternativa «anger room». La traduzione letterale, oltre che icastica, è «stanze della rabbia». Il concetto è tanto semplice quanto accattivante, alla luce della rapidità con la quale hanno proliferato in Italia e all’estero negli ultimi anni: una stanza insonorizzata, un oggetto contundente (il più comune è il piede di porco) e altri da mandare in frantumi in poco più di una dozzina di minuti. Una sorta di «zona franca», protetta e sicura, nella quale dare sfogo a rabbia, tensioni e frustrazioni in una maniera che al di fuori di essa sarebbe moralmente illecita, o illegale.

L’origine

Come nasca questo fenomeno è un tema ancora dibattuto. L’origine è incerta, ma la vulgata la fa risalire ad un locale di Tokyo inaugurato nel 2008, che offriva ai clienti la possibilità di scaraventare piatti e tazzine contro un muro di cemento, mandandoli in frantumi. Complice la complessa situazione economica del Paese, vi si recavano soprattutto lavoratori precari o disoccupati per evadere dalla ruvida realtà per qualche minuto. Quell’idea un po’ bislacca, anche grazie all’attenzione mediatica che le venne riservata – ne parlò il Telegraph – si è trasformata in breve tempo in un fenomeno globale. E in quanto tale si è evoluto, ha assunto forme e declinazioni diverse, mantenendo però la stessa vocazione. Oggi le «rage room» sono ovunque: dall’Argentina agli Stati Uniti al Continente asiatico. In Italia si trovano principalmente nelle grandi città, in particolare al centro e al nord: Roma, Torino, Genova, Milano. E ora apre i battenti «Fury Cage», la prima di sempre a Brescia.

Come funzionano

Non esiste, come detto, un modello unico: ogni «rage room» ha le proprie specificità, le proprie chicche, le proprie offerte speciali. Ci sono però degli elementi comuni più o meno a tutte. In questo ramo «Anger Games» è una delle aziende più importanti in Italia: le sue stanze della rabbia hanno già piantato la bandierina in tutte le città citate sopra, a eccezione appunto di Brescia. Il loro sito offre una panoramica dettagliata sul funzionamento di una sessione. L’attività all’interno della stanza dura quindici minuti, più un altro quarto d’ora per «briefing e debriefing». In pratica, gli organizzatori spiegano cos’è consentito e cosa no, e fanno firmare ai partecipanti un modulo di scarico di responsabilità e di avvenuta lettura e comprensione del regolamento. La stanza può ospitare un numero variabile di persone: otto al massimo a Milano, non più di due a Brescia. L’accesso è consentito ai maggiorenni in buona salute e, nel caso di «Anger Game», ai minorenni che abbiano compiuto almeno quattordici anni, purché accompagnati da un maggiorenne. «Fury Cage» fissa invece l’età minima a sedici anni.

Una sessione dura quindici minuti - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
Una sessione dura quindici minuti - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it

La sessione

Le «rage room» offrono pacchetti dal costo crescente tra i quali scegliere. Il più economico si aggira attorno ai trenta euro a persona e dà accesso a venti oggetti generici, come bicchieri, piatti e bottiglie, più uno o due di medie dimensioni (dispositivi elettronici, vasi, oggetti in legno). Poi l’offerta si allarga, e per qualche euro in più si ha a disposizione un numero maggiore di suppellettili e altri oggetti da ammaccare o distruggere. Ogni sessione va prenotata, a ciascun partecipante vengono consegnate delle protezioni perché tutto avvenga in sicurezza, insieme all’attrezzo da utilizzare per colpire tutto quello che popola la stanza: solitamente si tratta di un piede di porco, ma con un piccolo extra è possibile impugnare una vanga, un nunchaku, una mazza da golf o da baseball. Il tutto si svolge con un sottofondo musicale: l’hard rock è il più indicato per creare l’atmosfera giusta, ma la playlist è personalizzabile dal cliente. Si può fissare il ricordo con un filmato consegnato dagli organizzatori al termine della sessione. Qualcuno propone addirittura la possibilità di stampare e incorniciare la foto di un superiore a lavoro, di un ex fidanzato o un’ex fidanzata, e farne ciò che si vuole. I proprietari delle «rage room» recuperano buona parte degli oggetti da magazzini o da attività che stanno chiudendo.

«Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia

Chi le frequenta

Al netto dei requisiti minimi legati all’età degli avventori, le stanze della rabbia sono rivolte a tutti, in maniera indiscriminata. Il primo approccio è solitamente improntato a una certa timidezza: i clienti che si affacciano a quest’esperienza lo fanno con un po’ di circospezione, influenzata da tabù culturali che li inducono a concepire la distruzione di un oggetto come qualcosa di contrario alle regole della civiltà. Questo almeno secondo il racconto di diversi titolari delle stanze. Sempre sulla base delle testimonianze dei proprietari, emerge una prevalenza di clientela femminile piuttosto netta: alcuni addetti di «Anger Games» citati dal Post, per fare un esempio, calcolano che il 60-70% dei partecipanti alle sessioni sia di sesso femminile. La letteratura scientifica mette in prospettiva questo dato. Uno studio elaborato dall’American Psychological Association, datato 2023, ha dimostrato che negli Stati Uniti le donne registrano livelli di stress mediamente più alti rispetto agli uomini: 5,3 contro 4,8 su 10.

Perché si frequentano

Non c’è una ragione univoca che spinge un individuo a frequentare più o meno assiduamente le «rage room». Qualcuno giura di farlo per puro spirito di curiosità, di essere mosso dal desiderio di provare qualcosa di nuovo ed elettrizzante. Altri la interpretano quasi come una seduta terapeutica, di catarsi dalle fonti quotidiane di stress e rabbia. Negli Stati Uniti vengono proposte anche come attività di team building: gruppi di lavoro che si ritrovano a condividere quel momento per rafforzare unione e spirito di squadra.

  • Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia
    Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
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    Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia - Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
  • Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia
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  • Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia
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    Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia - Apre «Fury Cage», la prima stanza della rabbia a Brescia - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it

Gli esperti

Ma frequentare una «rage room» ha realmente un valore terapeutico? Orientarsi tra i pareri degli esperti non è semplice. Un punto sul quale tutti sembrano concordare è che, sebbene la sensazione nell’immediato sia per tutti liberatoria, ricorrere a questa soluzione per incanalare e sfogare la rabbia sia un processo da gestire con attenzione e in maniera non superficiale. La psicologa clinica Ramani Durvasula sostiene ad esempio che queste stanze possano rappresentare una «bella esperienza», a patto che chi le frequenta sia in grado di modulare in maniera adeguata le proprie emozioni. In caso contrario, il rischio è quello di «alimentare la rabbia», anziché attenuarla.

Kevin Bennett, professore di psicologia socio-personale, cita il modello della «pentola a pressione» associata all’aggressività, bollandolo come profondamente sbagliato. Si tende a credere, spiega Bennett, che quando la rabbia si accumula vada liberata in maniera tempestiva, per non correre il rischio che si manifesti in modi pericolosi e inappropriati. Di qui il concetto all’origine delle «rage room». Ma abituarsi a colpire con violenza un oggetto inanimato, insiste Bennett, rischia di sortire l’effetto opposto: «In un certo senso – scrive il professore su Psychology Today – le stanze della rabbia inducono le persone a trasformare impulsi e irritazione in aggressioni fisiche». Tradotto: quando assumono i contorni di un’attività ludica, o anche di occasionale evasione dalle pressioni della vita ordinaria, con la giusta capacità di gestire le emozioni, queste stanze sono fondamentalmente innocue, rappresentano un divertimento e nulla più. Se si trasformano in uno strumento adottato sistematicamente per contenere la rabbia, al contrario, è probabile che ci sia qualcosa di più profondo e radicato da approfondire con uno specialista.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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