Sofri e Camisasca: «Allora lotta, passione e paura. Oggi orizzonte basso»

Nicola Rocchi
Il dialogo tra l’ex leader di Lotta Continua e il vescovo emerito di Reggio Emilia sul ’68, le proteste di piazza e don Luigi Giussani
  • Adriano Sofri e mons. Massimo Camisasca a Brescia
    Adriano Sofri e mons. Massimo Camisasca a Brescia - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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È stato un confronto franco e intenso, quello tra monsignor Massimo Camisasca e Adriano Sofri. Il primo, vescovo emerito di Reggio Emilia, è stato allievo di don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione; il secondo, scrittore e giornalista, è stato leader di Lotta Continua.

Hanno vissuto il ’68 su versanti opposti: a farli dialogare intorno a quegli anni è stato ieri Graziano Tarantini, presidente della fondazione San Benedetto, in un affollato incontro al centro Paolo VI ispirato al libro «Una rivoluzione di sé. La vita come comunione» (Rizzoli, pagine 324, euro 17), raccolta di testi di don Giussani risalenti agli anni 1968-70. Il bilancio, pur nella diversità di vedute, ha portato con il distacco del tempo a intravedere sfondi comuni.

Per monsignor Camisasca quelle rivolte poggiavano «su un disagio che inizialmente interessò don Giussani: avvertiva che i giovani non erano considerati per le loro attese più profonde, ma soltanto come numeri nella macchina produttiva del Paese. Percepiva una sensibilità comune con questa generazione che si vedeva stretta». In seguito, tuttavia, le cose cambiarono: «Ci accorgemmo che quei bisogni erano strumentalizzati e incanalati in una nuova logica di potere, destinata a deludere ancora le attese. Il ’68 fu un fallimento politico, ma un successo culturale con la sua critica all’autorità; sfociata tuttavia in una critica totalitaria che ha distrutto il senso di appartenenza».

Per monsignor Camisasca il ’68 fu «una rivoluzione borghese», destinata a porre le basi dell’attuale «individualismo tecnologico». Per Sofri, invece, si trattò di «un tentativo classista di rivoluzione: i giovani furono una parte non decisiva nell’ultimo episodio della rivolta di un gruppo sociale, gli operai, che si riconoscevano come classe e si sentivano capaci di apportare la salvezza al mondo con la loro lotta». Anche quella operaia, afferma lo scrittore, fu «una rivoluzione di sé»; ma da entrambe le parti agivano «persone serie, che prendevano sul serio la vita e le parole». Al punto che Sofri vede oggi tra Cl e Lc «somiglianze più decisive delle pur radicali dissomiglianze».

Ad agire in tutti, ribadisce monsignor Camisasca, era «un disagio esistenziale profondo che non accettava di essere inglobato in una logica politica». Sofri riconosce che tale bisogno esistenziale «si è manifestato in molti modi, anche deleteri».

E rievoca la morte di Francesco Lorusso, l’ex militante di Lc ucciso a Bologna nel 1977 dalle forze dell’ordine durante l’assalto a un’assemblea di Cl. Camisasca era lì: «Eravamo tutti terrorizzati – ricorda – perché non sapevamo quale sarebbe stata la reazione. I rapporti tra Cl e tante realtà di contestazione erano molto accesi, e noi eravamo visti come nemici».

Degenerazioni di un’epoca segnata da una viva aspirazione al cambiamento. Oggi, invece, «l’orizzonte è basso». Camisasca avverte un grave disorientamento esistenziale: «A questo ci ha portato l’individualismo. In don Giussani vedevo proprio la capacità di elevare quell’orizzonte, aprendo a quello che lui chiamava mistero. Cercava di aprire il respiro dei ragazzi all’imprevisto e all’imprevedibile. Penso che oggi avrebbe molta paura dei tanti uomini che si credono Dio, e simpatia per quelli che si ritengono mendicanti».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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