Se la borsa di studio diventa un lavoro «vero»

La testimonianza di una lettrice è l’esempio delle difficoltà che si trovano nel mondo del lavoro quando non si è dipendenti: anche la sanità pubblica soffre
Una donna al lavoro
Una donna al lavoro
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«Non sono pronta a fare da sola, ma mi dicono che devo. Sbaglio e vengo ripresa duramente, mi vengono assegnati compiti frammentari, devo saltare da una cosa all’altra e prendere in mano pratiche ferme da mesi, in un clima generale di frustrazione e sovraccarico. Se chiedo mi verrà risposto male. Se vado via all’orario stabilito e resto sulle mie 20 ore sono una lavativa».

Una testimonianza, come tante altre, che parla delle difficoltà nel mondo del lavoro. Questa ci è arrivata da una nostra lettrice (si può leggere qui). Parla di un’esperienza al Civile di Brescia. E parla di una borsa di studio che si trasforma in un lavoro subordinato. Il ruolo è quello di data entry (la persona che si occupa di raccolta, compilazione e gestione dei dati per conto di un’azienda) nella struttura sanitaria cittadina. Mesi passati in un ufficio che diventano tempo «buttato via»

Il tema esiste: è evidente. E riguarda – oltre alle borse di studio – anche stage e tirocini. Sono storie già sentite, lavoratori a tutti gli effetti, che il mondo del lavoro non riesce però a gestire nel modo giusto. E la sanità pubblica, a quanto pare, non riesce a distinguersi. 

Regole

Il lavoro subordinato ha delle regole. I bandi per le borse di studio ne dettano altre, così come gli stage impongono diversi obblighi alle aziende e al personale. La lettrice scrive: «È con i colleghi che parlo di orari, ferie, malattia» e ancora «stabilisco che la mia frequenza è di 20 ore settimanali, al netto di qualche urgenza che potrei gestire da casa. I colleghi-capi non sono d’accordo è inizia un complicato periodo di contrattazione dove mi si chiede di fare più ore, di fare i training necessari per l’utilizzo dei programmi da casa e di imparare il più in fretta possibile a svolgere tutti i compiti». Ecco, è importante fare una precisazione. La borsa di studio è uno strumento che non configura delle vere prestazioni lavorative e dunque il corrispettivo che viene versato al borsista non è una retribuzione per l’attività svolta: è solamente un classico rimborso spese. 

Per i tirocini funziona più o meno allo stesso modo. Lo stagista non riceve uno stipendio con la regolare busta paga, ma una retribuzione minima che può variare da regione a regione. A disciplinare i tirocini sono arrivate nel 2012 la riforma Fornero e poi le Linee guida emanate dalla Conferenza Stato Regioni. La normativa stabilisce una retribuzione non inferiore a 300 euro lordi.

Non essendo veri e propri contratti di lavoro, borse di studio e tirocini non prevedono dunque nemmeno ferie, permessi, giorni di malattia. Questo non significa che una persona debba sempre essere a lavoro, tutt’altro. Le tempistiche e i riposi possono essere concordati con l’ente che ha promosso la borsa di studio, con le aziende e con i tutor. E soprattutto, se un borsista o uno stagista viene utilizzato come un dipendente può denunciare la situazione e il giudice del lavoro dovrò accertare che tipo di rapporto esiste tra il lavoratore e l’azienda. 

Richieste

«Quello che mi ha sorpreso – racconta la lettrice, che abbiamo contattato – è che un impiego fatto di gerarchie, mansioni, responsabilità e obblighi di presenza non sia regolato da un contratto di lavoro subordinato. Certamente la borsa di studio è un vantaggio sia per il borsista che per il l’ente, perché esentasse, ma credo che tutti preferirebbero avere un contratto con regole molto più definite». Il rischio, infatti, è quello di trovarsi poi a fare 50 ore al posto delle 20 concordate, il tutto senza che nel periodo di lavoro vengano versati i contributi. 

«Guarda caso mi veniva chiesti dai miei pari di prolungare l’orario – continua la lettrice –. Cioè, è talmente furbo il meccanismo che nessun primario, nessuna persona in vista, nessuna persona che ha realmente il potere si sognerebbe mai di dirti “devi fare questi orari, devi presenziare per forza, 20 ore sono poche”. Lo fanno dire ad altre persone in ufficio, così nessuno lascia traccia di una vera subordinazione». 

Organizzazione

C’è poi un’altra problematica che emerge dalla lettera. Anche questa comune a diversi settori nel mondo del lavoro. Ci sono interi reparti o uffici che sopravvivono grazie a persone che non hanno un contratto, costretti – a volte – a gestire situazione impegnative e con carenze strutturali. 

«Arrivano altri lavoratori – si legge nella testimonianza –. Altri 3 data entry e 3 data manager, ma dove saranno messi a lavorare se le postazioni sono 5 in tutto per 9 persone? Se si considera che i frigoriferi sono in 4 stanze diverse, i faldoni in altre 3 e i campioni si lavorano in un altro reparto, o i nuovi lavoratori staranno tutti nella stanza da 15 mq, oppure persone che per necessità dovrebbero lavorare insieme e sulle stesse fonti di documenti cartacei, saranno dislocate in 4/5 posti diversi, anche molto distanti tra loro. In questo scenario gli errori sono all'ordine del giorno, e piccoli o grandi che siano, di notevole o scarso impatto, è chiaro che non sono colpa di nessuno se non delle condizioni oggettive. Certo la terapia è garantita e il sistema ha dei meccanismi autocorrettivi, ciò non toglie che se io fossi il paziente non vorrei che a gestire la mia terapia farmacologica sperimentale ci fosse un borsista, nè un infermiere precario». 

Nell’ufficio in cui lavorava la nostra lettrice c’erano 13 persone senza contratto, solo borsisti o interinali, e solo una persona assunta come lavoratrice subordinata. 

Facili soluzioni

La nostra lettrice si chiede se i capi siano a conoscenza di quanto accade. «Quando un capo sembra non voler sapere, significa in verità che sa già tutto» è la risposta che si dà. Una cosa è certamente evidente: il sistema si regge su delle persone che non hanno un contratto. Ormai in (quasi) tutti i settori. Anche nella sanità pubblica, come scritto qualche riga sopra, anche dove c’è da gestire una terapia farmacologica sperimentale. 

Quali sono le soluzioni? Non ne esistono di facili, come suggerisce la lettera. Ma non può essere che il mercato del lavoro, il privato, il pubblico, la sanità e tutto il resto «stiano in piedi» grazie a «non lavoratori», che in alcuni casi diventano poco più di volontari

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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