In Medio Oriente serve ridare speranza alla parola
Urishalim, Yerushalayim, al-Quds, Gerusalemme: è anche nella molteplicità dei suoi nomi che si riflette tutta la complessità mediorientale, spirituale e geopolitica. Una complessità legata anche a questa città, che nel corso della sua storia ha subito oltre venti assedi e fu persa e riconquistata 44 volte. Fulcro religioso dei tre grandi credo monoteistici si è meritata l’appellativo di «Santa»: luogo in cui gli angeli vi discesero, i Profeti vi predicarono e lì vennero sepolti. Per gli Ebrei, sede dell’unico Tempio, segno di unità, custode dell’Arca dell’Alleanza; per i Cristiani luogo del martirio di Gesù e della sua ascesa al cielo, così come in sella a un destriero mistico ascese Maometto dalla Cupola della Roccia, quella dorata, che si staglia su tutta la città. Un luogo che merita rispetto per ciò che simbolizza.
Chi bene lo comprese fu Edmund Allenby, il Generale britannico che nel dicembre del 1917 entrò vittorioso nella città per prenderne possesso, non a cavallo, ma a piedi. In segno di deferenza, stemperando volutamente il senso di conquista militare.
Sebbene in epoca antica il suo nome significasse «città preziosa», Gaza non ha nulla di questo. Alla luce della sua drammatica storia recente, controllata dall’Egitto per 19 anni poi, dal 1967 invasa dalle forze israeliane, sottoposta ad amministrazione militare, infine, governata in maniera autocratica da un’organizzazione fondamentalista nel 2006, le dovrebbe essere attribuito il titolo di «martire». Un sostantivo dalla duplice valenza e dalle connotazioni divergenti.
In un contesto esecrabile, riferibile alle molte azioni terroristiche condotte da Hamas mediante l’uso di attentati suicidi, in uno, oggi drammaticamente più aderente alla realtà, per la morte di 45.000 abitanti della Striscia, oltre la metà dei quali civili. Gaza, punto focale di una guerra che perdura ormai da 444 giorni, è divenuta anche motivo di scontro politico e interconfessionale, non tra Ebrei e Musulmani, ma tra Israele e la Santa Sede.
La questione dirimente si è concentrata attorno alla tradizionale visita in occasione del Natale del Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il Cardinale Pizzaballa, all’ormai esigua comunità cristiana residente nella Striscia, passata da 5.000 persone negli anni Novanta a meno di 500 oggi, la quasi totalità rifugiata nel compound della Chiesa della Sacra Famiglia per sfuggire alla guerra.
Let us pray so that at Christmas there may be a ceasefire on all war fronts, in Ukraine, in the Holy Land, throughout the Middle East and the entire world. May weapons be silenced and Christmas carols resound!
— Pope Francis (@Pontifex) December 22, 2024
Sin dall’inizio della crisi Papa Francesco si è speso in denunce contro l’uccisione di civili, così come forte è stata la sua presa di posizione verso gli ostaggi ancora oggi detenuti da Hamas, sino alla pronuncia di una parola tanto drammatica quanto politicamente di peso: genocidio. Non come atto formale di accusa o di evidenza assodata, ma come elemento di indagine, ovvero se gli eventi in atto siano inquadrabili «nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali», preferendo descrivere il dramma di Gaza come «carneficina», termine di indubbio impatto, ma dal punto di vista politico-diplomatico di diverso rilievo o qualificando la reazione israeliana come «risposta sproporzionata».
Dure le repliche di Israele, non solo dalle sue istituzioni, ma anche di parte dell’intelligencija ebraica. Due piani che intersecandosi arrivano a collidere, a causa di presunte prese di posizione ideologiche, ma che ideologiche non sono e che bollate come antisemite, in un effetto pernicioso, impediscono la mediazione, la quale si realizza solo con il dialogo tra le parti, alla ricerca di una soluzione comune, per il bene della popolazione: cessazione delle ostilità e rilascio degli ostaggi.
Cardinal Pierbattista Pizzaballa visited the graves of Naheda Anton and her daughter, Samar Anton, who were killed by an Israeli sniper on December 16, 2023, at the Holy Family Catholic Church in Gaza.
— Ihab Hassan (@IhabHassane) December 24, 2024
Turn on the sound to hear the incessant buzz of Israeli army drones—this is… pic.twitter.com/ctqnslOqHR
Il filo rosso da sempre perseguito da Monsignor Pizzaballa forse è proprio questo. Ridare speranza al dialogo, alla Parola. Lo fece sin dal suo primo ingresso a Gaza, lo scorso maggio, quando affermò che si stava vivendo una notte molto lunga. Ma con la consapevolezza, data dalla fede e dalla conoscenza di quelle dinamiche, che «anche le notti finiscono». Concetto che ha ripreso nella sua omelia pre-natalizia incontrando i Cristiani a Gaza, definendoli la luce della Chiesa e in quanto Chiesa chiamati dunque a impegnarsi per il bene di tutti. Un invito al dialogo, anche interreligioso, il quale, se visto con la lente, spesso deformata dell’Occidente, sembra progredire più con l’Islam, che con l’Ebraismo, sebbene proprio nel dialogo interreligioso il Segretario di Stato vaticano Monsignor Parolin, abbia riconosciuto lo strumento essenziale per contrastare l’ascesa globale dell’antisemitismo.
Sarà anche su Gaza, così come su Gerusalemme che si giocherà la ricostruzione di un dialogo tra confessioni, in una dimensione non più bilaterale, ma trilaterale. Per un seme di pace. L’importante sarà entrarvi con rispetto, così come è entrato Mons. Pizzaballa a Gaza, in punta di piedi, e come Allenby, lui ufficiale di Cavalleria, quando decise di entrare in Gerusalemme attraverso la Porta di Jaffa a piedi.
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