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Molestie in ospedale a Chiari, vittime a lungo in silenzio «per paura di ripercussioni sul lavoro»

L’hanno raccontato loro stesse nell’udienza di ieri del processo a carico del medico accusato di violenza sessuale da una collega e da una infermiera
Il tribunale di Brescia - © www.giornaledibrescia.it
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Hanno avuto paura, si sono vergognate e si sono sentite in colpa. E per molto tempo sono rimaste in silenzio. «Per paura di ripercussioni sul lavoro, lui è una persona potente» hanno detto. Una delle presunte vittime, quando ha saputo di non essere stata l’unica a ricevere attenzioni sessuali sgradite, si è fatta forza e ha denunciato l’accaduto alla direzione dell’ospedale e ai carabinieri che hanno poi raccolto la deposizione anche dell’altra donna.

Sono state ascoltate le persone offese nell’udienza di ieri mattina del processo a carico di un medico dell’ospedale di Chiari accusato, da una collega e da una infermiera, di violenza sessuale per episodi di avances non gradite, palpeggiamenti e, è emerso ieri in una travagliata deposizione, di un aggressione sessuale nel bagno dello studio del professionista.

Le testimonianze

«Mi chiedeva continuamente di vederci, di uscire insieme - ha raccontato l’infermiera - e una volta nel suo studio mi ha messo le mani sul seno. Io l’ho respinto e ho cercato di non avere più nulla a che fare con lui e dopo poco sono stata trasferita in un’altra struttura della stessa azienda sanitaria».

Un cambiamento di atteggiamento che è stato notato anche dai colleghi sentiti a processo: «Il clima in reparto non era sereno ma si continuava a lavorare» hanno spiegato altri medici.

Molto travagliata ed emotivamente impegnativa la testimonianza della seconda presunta vittima del medico, una collega di una diversa specialità: «Io sono sempre cortese e solare con tutti, all’inizio i suoi inviti e le sue cortesie mi lusingavano». Poi però le cose sono cambiate: «In una occasione mi ha convinto ad andare nel suo studio e mi ha toccato il seno ma io mi sono scostata. Ero in imbarazzo, non sapevo cosa dire e mi sentivo in difficoltà ad oppormi ad un mio diretto superiore». Dopo qualche tempo «con una scusa mi ha convinta ad andare nel suo ufficio».

E lì ci sarebbe stata l’aggressione. «Quando sono entrata nello studio ha chiuso la porta a chiave, poi mi ha spinta nel bagno mi ha messo le mani nei pantaloni». E le cose non si sono fermate lì secondo il racconto fino a quando lei non ha reagito, si è liberata e allontanata. Una versione dei fatti diversa da quella resa davanti ai carabinieri: «Non avrei mai più voluto parlare di quei fatti, mai trovarmi a raccontarlo davanti alle persone. Dopo quegli episodi non riesco più ad avere la stessa intimità con mio marito» e alla domanda precisa del presidente Roberto Spanò ha spiegato: «I fatti sono andati come li ho raccontati oggi, con i carabinieri non ho raccontato tutto per non trovarmi in questo imbarazzo».

Il difensore del medico ha cercato di mettere in evidenza alcune contraddizioni nel racconto della donna, che è andata in confusione sulle date, e ha mostrato alla corte una serie di messaggi, che non è stato chiarito se i due si siano scambiati prima o dopo l’aggressione dato che la presunta vittima non l’ha collocata con precisione nel tempo ma solo «dopo l’estate», in cui la dottoressa si lamentava con il collega di non essere stata salutata o proponeva di andare insieme ad un convegno.

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