La Manovra penalizza i Comuni: tagli per 38,4 milioni in 5 anni
Sono arrabbiati, sono increduli, ma più di tutto sono preoccupati. E, infatti, i sindaci hanno già cambiato lessico: questa volta, di fronte all’ennesima accettata al portafoglio pubblico, parlano di «sopravvivenza» dei loro Comuni. Per capire la ragione basta un numero: 34.561.456 euro, ossia l’importo esatto (al quale si aggiungono i 3.859.070 euro di tagli inflitti alla Provincia, già impigliata in un equilibrio precario) che l’ultima manovra finanziaria prevede di togliere agli enti locali bresciani nell’arco di cinque anni, scippandoli dalla spesa corrente.
Che, per intenderci, è quella parte del bilancio comunale che serve quotidianamente per fare funzionare ogni tipo di servizio: scuole, riscaldamento, assistenza agli anziani, welfare, biblioteche, sport e via discorrendo. Ecco perché questa cifra – che peraltro si somma alla sforbiciata già deliberata lo scorso anno – non è solo un numero, ma risuona come una sentenza.
Ora i sindaci si trovano incastrati: aumentare le tasse locali si può, ma solo fino a un certo punto, senza contare che l’Irpef in molti territori ha già toccato il picco massimo. L’altra strada è impietosa: ridurre o tagliare servizi essenziali, anche in questo caso sulle spalle dei cittadini, l’ultimo anello di una catena economica sempre più fragile.
La crisi dei piccoli
Per dire: il capoluogo, da qui al 2029, dovrà contare su 9.170.996 euro in meno, Sirmione dovrà rinunciare a oltre mezzo milione, Desenzano a 904.146 euro, Palazzolo a più di 457mila euro. Ma per verificare gli effetti concreti bisogna intrecciare i tagli con spesa corrente e numero di abitanti dei Comuni. Ne esce un’istantanea crudele, soprattutto per i piccoli enti locali, già in affanno, a barcamenarsi tra spopolamento, servizi da garantire e infrastrutture da mantenere. A Limone sul Garda il Comune dovrà spendere 200,82 euro in meno per ogni abitante, a Ponte di Legno il taglio pro capite è di oltre 152 euro, a Valvestino di 104,18 e non va particolarmente meglio a nessuno dei comuni montani.
Sommando i costi dei provvedimenti vecchi e nuovi in essere, a livello nazionale sappiamo che nel 2025 i territori avranno 430 milioni in meno, cifra che salirà a 460 milioni per il triennio 2026-2028 e che si attesterà a 430 milioni nel 2029. Eppure la spesa degli enti locali incide solo per il 6,5% su quella dello Stato. Davvero poco se si pensa che in capo ai sindaci c’è il welfare locale, a cominciare dagli asili nido. Ecco allora che togliere risorse ai Comuni significa spingerli sulla via della privatizzazione dei servizi pubblici, della svendita del patrimonio, della messa a valorizzazione finanziaria del territorio, con una profonda espropriazione di diritti per le comunità locali.
Effetto domino
C’è poi un paradosso in tutto questo: ci troviamo nell’anno clou del Piano nazionale di ripresa e resilienza, quello in cui bisogna correre per portare a termine le opere finanziate nei tempi previsti. Opere che però, taglio dopo taglio, rischiano di trasformarsi in nuovissime e bellissime cattedrali... vuote: molte, infatti, nascono come incubatori di servizi pubblici, ma per riuscire a farli funzionare, i Comuni devono avere le risorse.
Non sono pochi i sindaci che si troveranno in questa situazione. Un esempio per tutti, Leno: «Noi grazie al Pnrr stiamo ultimando i cantieri per l’ampliamento della mensa – spiega la sindaca Cristina Tedaldi –. Come faremo poi per la gestione di una struttura più grande? E per il personale? Non possiamo certo continuare ad alzare le tariffe ai cittadini, che sono sempre più in difficoltà e che spesso, finora, hanno usufruito del welfare comunale». Già, finora...
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