Lettera da Canton Mombello: «Non privatemi della mia umanità»

A firmarla è un detenuto del Nerio Fischione: «Mi avete tolto la libertà e la dignità, non avete il diritto di togliermi anche la speranza»
La veduta da una delle celle di Canton Mombello - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
La veduta da una delle celle di Canton Mombello - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
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«Un altro risveglio nella mia cella, apro gli occhi e il mio sguardo mette subito a fuoco il blindo, fatto di ferro massiccio, do il buongiorno al mio compagno di cella che dorme nel letto a castello sotto il mio e all'altro sopra il mio, sperando che scendendo non si faccia del male». Inizia così la lettera di Bekim, un detenuto di Canton Mombello: «Alla fine, siamo svegli tutti e nove, sono appena passate le 6.00 del mattino e inizierà la lunga coda per andare all'unico bagno, sperando ognuno che gli altri facciano in fretta, lasciando andare i primi che devono partecipare a processi o andare a lavorare in cucina. Si sono fatte le 8.00 e finalmente tocca a me e posso scendere dal letto, anche per vestirci scendiamo a turni, perché non abbiamo lo spazio per restare in piedi tutti e nove all'interno della cella. Sappiamo che sarà un altro giorno di sopravvivenza forzata, dovrò lottare per i miei spazi e cercare di vivere ragionando con persone, idee diverse, modi di pensare, ragionare, vedere le cose diverse dal mio».

Il tema è sempre quello del sovraffollamento. Il cui tasso, nel caso del Nerio Fischione, supera il 200%. Si tratta del secondo peggior dato in Italia, alle spalle soltanto di San Vittore: «È difficile non avere scontri, davanti a te solo persone nervose piene di rabbia, ma devo stare calmo, per non prendere un rapporto che mi farebbe perdere il mio semestre e inciderebbe sulla mia uscita in affidamento. Oggi un detenuto della mia cella esce finalmente libero, rimaniamo solamente in otto per qualche ora e tutto quanto ci sembra più spazioso; all'improvviso entra un nuovo giunto, pieno di tagli, è un autolesionista, ha molte ferite ancora aperte, fatica a parlare, non riesce a farlo perché è pieno di terapia. Lo aiutiamo a fare il letto e finalmente arriva l'ora di preparare la cena.

Cena e pranzo sono preparate in bagno e la preparazione è più volte interrotta, perché bisogna uscire e lasciare il bagno a chi deve espletare qualche bisogno ed essendo in nove succede continuamente. Dopo cena arriva la notte, il nuovo giunto non riesce a dormire, continua a rimanere in piedi, è molto agitato, va in bagno e urina nel lavandino, l'unico lavandino dove noi laviamo la faccia, i nostri piatti, le posate di plastica, lui prende una padella e comincia a picchiarla sul blindo della cella, vuole attirare l'attenzione dell'agente di guardia. Noi cerchiamo di calmarlo, gli parliamo come degli psicologi, ormai sono le due passate e lui non si ferma, gli agenti gli dicono che non gli daranno altra terapia, non può averne ancora, allora lui prende il materasso e cerca di dargli fuoco e noi siamo tutti lì dentro, in quella cella, chiusi.

Alla fine, si placa perché ottiene la terapia e si addormenta, ci guardiamo negli occhi e tutti pensiamo: non possiamo fare nulla, se avessimo reagito fisicamente contro di lui saremmo finiti in isolamento e avremmo perso sei mesi di buon comportamento. Questo è un filo sottile che ci trattiene ogni giorno dal commettere uno sbaglio, anche se le sollecitazioni sono molteplici. Questo alla fine è stato un giorno normale, domani potrebbe andare peggio.

Entrando in carcere si è come un puzzle completo, che ogni giorno, vivendo qui, comincia a perdere un pezzo alla volta, quello della libertà se ne va per primo, poi dignità, intimità che non sai più nemmeno cos'è perché non hai più la possibilità di rimanere solo con te stesso. Perdo un pezzo della mia famiglia, sentendomi sempre più vuoto, io sono entrato come uomo, padre, figlio, fratello, essere.

Non chiedo cose impossibili come migliorare il carcere, o la possibilità che qualche ditta esterna entri a dare a tutti i detenuti la possibilità di lavorare, non chiedo cose che aiutino il detenuto ad avere un reinserimento, una rieducazione o degli educatori che ci insegnino un lavoro e che mi aiutino per il giorno in cui dovrò uscire e ricominciare la mia vita. Non chiedo niente di tutto ciò, so che chiedo l'impossibile, devo scontare la mia pena, pagare il mio reato ed è giusto passare tutto ciò, ma vi chiedo di lasciarmi scontare la mia pena come un essere umano, non solo come un detenuto, ma come una persona e ho il diritto di sentirmi umano.

Mi è stata tolta la libertà, la dignità, l'intimità, tutto, ma non avete il diritto di privarmi dell'umanità e della mia speranza, questi ultimi pezzi del mio puzzle non ve li darò mai, ogni volta che noi perdiamo un pezzo anche la giustizia perde la sua umanità e senza quel pezzo la giustizia non è completa».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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