I tatuaggi influenzano i colloqui di lavoro: il parere degli esperti

Secondo gli esperti e le esperte HR di Brescia, il fattore tattoo può pesare sulla scelta dei candidati: non esiste una legge che regolamenti il rapporto fra tatuaggi e assunzione
I tatuaggi potrebbero influenzare la selezione - Foto/Unsplash
I tatuaggi potrebbero influenzare la selezione - Foto/Unsplash
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Se è vero che in Italia non esiste una legge che regolamenti il rapporto fra tatuaggi e assunzioni, gli esperti del settore risorse umane confermano come il «fattore tattoo», ancor oggi, possa influire sull’esito di un colloquio.

Non esistono professioni vietate

In generale non esistono professioni «vietate» alle persone (particolarmente) tatuate, ma i datori di lavoro possono esercitare una legittima discrezionalità. Legittima, in quanto il principio di non discriminazione – che riguarda invece orientamento sessuale, genere, età, razza e fede religiosa –, non si applica a chi ha la pelle inchiostrata.

Fatta eccezione per il pubblico impiego, cui si accede tramite concorso, in ambito privato è il datore di lavoro a decidere chi assumere e chi no. In gioco ci sono moltissimi fattori, dagli studi pregressi alla predisposizione personale, dalle esperienze maturate alle abilità extracurriculari. Non ultimo l’aspetto fisico, stante la presenza o meno di politiche aziendali che possono prevedere un particolare decoro o un determinato rigore nel proprio aspetto esteriore.

I protocolli aziendali

«In generale – ci spiega la HR manager di un’azienda bresciana – non abbiamo una policy aziendale condivisa in materia di tatuaggi e cerchiamo di non desumere la storia personale di un candidato o le sue inclinazioni basandoci solamente sul fatto che abbia dei disegni sulla pelle. Vero è che spesso viene applicata una regola non scritta legata al contesto».

«In produzione, in magazzino o comunque per mansioni che non richiedono ruoli di rappresentanza si tende a essere molto meno restrittivi – spiega –. Se mi arrivasse un candidato completamente tatuato, faccia compresa, non avrei problemi ad affidargli un incarico, ad esempio, nella movimentazione dei macchinari. Concettualmente non ci sarebbe alcun problema neppure nell’impiegarlo a contatto con i clienti. Però probabilmente, se dovessi tenere conto dell’attitudine dei miei clienti nello specifico, so che un determinato aspetto lo penalizzerebbe o, perlomeno, non favorirebbe il suo inserimento».

I tatuaggi sulle braccia

«A livello personale - prosegue la manager - mi sono occupata di numerose selezioni con candidate e candidati, anche di una certa età, che si sono presentati in estate e quindi con i tatuaggi ben visibili sulle braccia. Un fattore che non ha mai costituito un criterio di valutazione, né in negativo né in positivo. Non posso negare però che, se mi trovassi di fronte una persona con tatuaggi inneggianti all’odio o con simboli che non condivido, sarebbe molto più difficile mantenere un punto di vista oggettivo».

Una posizione, questa, condivisa da molti addetti ai lavori, che confermano come a livello teorico un tatuaggio non incida nella selezione di una candidatura e venga trattato alla stregua del modo di vestire. A livello pratico, però, si aprono delle sfumature molto più ampie legate anche alle dimensioni del disegno, alla visibilità, al suo significato e alla posizione. Difficilmente un cuoricino sul polso viene equiparato ad un tribale sul collo e ancor oggi, di fronte ad una scritta in viso, molti datori di lavoro sospendono ogni valutazione.

«Entra quindi in gioco una valutazione opportunistica in cui spesso i centimetri di pelle tatuati finiscono per essere inversamente proporzionali alle opportunità».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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