Con l’Ariosa si chiude il mistero della cerimonia del Carnevale di Bagolino

Sonia Polini
I bagossi sembrano trasportati dalla magia di un incantesimo che anima il loro senso di appartenenza ad una tradizione, che, seppur mutata nel tempo, deve permanere nella memoria identitaria
La danza dell'Ariosa chiude il Carnevale di Bagolino
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Dopo l’avvio di lunedì all’alba, si conclude questa sera il tradizionale Carnevale di Bagolino con il ballo de «L’Ariosa».

Un’antica cerimonia

Quelli appena conclusi sono i giorni di festa, la cui preparazione inizia dopo Natale («Dopo Nadàl, l’è Carnaàl»). Non c’è spazio per l’improvvisazione, perché quello di Bagolino non è un carnevale cittadino che interrompe la vita regolare dell’anno con le sue anomalie, ma un evento animato dalla coesione e dalla adesione spontanea di tutto il paese che lo vive come simbolo della propria identità.

Per il ballerino esperto L. F. (anche l’anonimato è un’usanza che è doveroso rispettare) è talmente importante danzare durante questa festa che, se non potesse farlo più, se ne andrebbe da Bagolino. I bagossi che ne parlano sembrano trasportati dalla magia di un incantesimo che anima il loro senso di appartenenza ad una tradizione, che, seppur mutata nel tempo, deve permanere nella memoria identitaria dei cittadini attraverso il rito.

Le segnacole dei balarì
Le segnacole dei balarì

Il carnevale di Bagolino appartiene a quegli eventi che affondano le loro radici nella misteriosa cerimonialità antica, simile a quella greca, dove vigeva una vorticosa mescolanza tra sacro e profano, perché l’avvento del carnevale, come le feste primaverili dell’antica Grecia o i Saturnali dell’antica Roma, segnava la fine dell’inverno e l’inizio di una stagione più mite, dove la natura ripagava i contadini per le loro sofferenze della stagione invernale. In una zona impervia e difficile come quella in cui si trova Bagolino, per i contadini, la dissacrazione carnevalesca «era un modo per scongiurare il dramma delle forze malefiche che l’ignoto può scatenare contro l’uomo».

La festa è costituita da due elementi diversi: da un lato la componente plebea che ha dato vita al màscher dalla personalità disordinata ed esuberante; dall’altro quella borghese che si manifesta nelle raffinate danze dei balarì accompagnate dai violini dei sunadùr. C’è il carnevale dei màscher e quello dei balarì. Quello dei primi, màscher, raccolti in più compagnie, rappresenta l’anima rude del carnevale di Bagolino: già dopo Natale escono vestiti da vecchio o da vecchia ed entrano nelle case a fare scherzi, fino a quando il padrone offre loro vino o dolciumi.

Il costume del balarì

Il Carnevale di Bagolino - © www.giornaledibrescia.it
Il Carnevale di Bagolino - © www.giornaledibrescia.it

Gli aristocratici balarì, quaranta coppie di danzatori mascherati, sono organizzati in una compagnia guidata da un capo e accompagnati da un’orchestra di musicanti, i sunadùr. Il capo ballerini, racconta il professor L. F., tra le 4 e le 5 del mattino, spostandosi rapidamente, fa un giro a piedi attraverso le vie strette e tortuose del paese, così da risvegliare col suono della sua cornetta i balarì, i suoi amici fissi.

Ebbene, durante la mattina, i ballerini procedono alla elaboratissima vestizione dell’abito e, soprattutto, del cappello (capèl) con l’aiuto delle mogli. Il costume ha un colore scuro ed è composto da giacca e da pantaloni al ginocchio, foggia derivante probabilmente dalla dominazione spagnola del 1600. Sulla giacca, lungo i bordi viene cucita passamaneria in diversi colori e, sull’avambraccio «i gradi», che arieggiano a divise ottocentesche, hanno il disegno effettivo dei gradi militari; talvolta sono ottenuti con ricami sul velluto. Le spalline, con cordone di cotone bianco, di foggia militaresca (dal 1930 circa) e una fascia con coccarda sul braccio sinistro, completano la giacca.

I pantaloni sono guarniti con pizzi e passamaneria sulle bande esterne e sull’orlo. Le calze bianche, finemente lavorate a otto aghi in varie fogge e indossate sopra un paio di calze rosse per risaltarne il disegno, sono trattenute al ginocchio dalle sente, una fettuccia di lana lavorata a telaio a mano, lunga circa un metro, ripetutamente avvolta, che termina all’estremità con tre o quattro pom pon (masuline) che accentuano le evoluzioni dei ballerini durante le danze. La camicia bianca, la cravatta scura e i guanti di filo bianco spesso ricamati, completano la divisa.

I dettagli e la maschera

Al di sopra di questa si vedono i particolari più appariscenti: la tracolla, lo scialle, il cappello e la maschera. La tracolla è di pizzo o di velluto ricamato e cade dalla spalla destra al fianco sinistro (si lasciava ironicamente spazio ad una ipotetica spada utile agli aristocratici per combattere contro i plebei in rivolta), congiungendosi e terminando con due grossi pon pon. Lo scialle, fissato sul davanti, ricade sulla schiena con lunghissime frange, creando effetti spettacolari di forma e di colore durante le danze. Un tempo erano di lana, con ricami floreali, ma quelli attuali sono di seta pregiata e sgargianti di derivazione Orientale (compaiono moschee, mezzelune, pavoni), poiché gli abitanti di Bagolino emigrarono in un certo periodo nelle colonie nord-africane dove trovarono foulard di seta degni del loro carnevale.

La maschera è tutta bianca e su di essa è dipinta una bautta nera, di origine veneziana. Per realizzarla, sette strati di garze miste col gesso e per ultimo, quello più vicino alla pelle, è costituito da un calco di cera plasmata sul viso del ballerino. Ciò impedisce di sudare. La maschera spessa deve sostenere un cappello di circa due chili: a fine giornata i ballerini sentono male alla testa, ma vivono per questi due giorni e sopportano tutto. La pesantezza del cappello è data dalle sue decorazioni.

Infatti, la vestizione del capèl è la parte più preziosa, ma richiede molte ore ed è frutto di abilità, pazienza e dedizione da parte delle donne. Il cappello è di feltro a forma di cupola: viene irrigidito e poi interamente rivestito di spighetta rossa, una fettuccia di lana o di cotone lunga 80 metri, arricciata per coprire interamente la superficie, su cui viene fissato nella parte sinistra il fiocco. Il fiocco è composto di nastri di seta multicolore che possono arrivare a 200 metri, perché ritorti e ripiegati morbidamente su se stessi. Sul cappello così preparato si fissano gli ori propri o prestati. Prima di carnevale, ogni ballerino prende a prestito da famiglie amiche i monili migliori e li appende con nastri di colori diversi, tutti tranne il viola che è il colore della Quaresima. Questo è un modo per distinguerli. Il ballerino conferma le poste, luoghi dei monili, perché ogni proprietario merita un ballo di ringraziamento, un omaggio, davanti a casa e sa che i suoi preziosi monili saranno restituiti il Mercoledì delle Ceneri.

Ogni oggetto prezioso che veste il cappello contribuisce a creare un disegno diverso ogni anno e dipende dal gusto del ballerino.

Cosa succede al Carnevale di Bagolino

Una volta pronti, i ballerini escono segretamente di casa e camminano mano nella mano col socio che fa coppia con loro (un capo e una figura che corrispondono all’uomo e alla donna): c’è qualcosa di solenne quando ci si stringe la mano all’alba del lunedì all’inizio del servizio, magari dopo un anno che non ci si vedeva.

Prima la benedizione in Chiesa alle 6.30 e poi l’offerta del brodo di gallo nella canonica del Parroco danno il via alla festa. Secondo le anziane del paese «quando passavano, non si poteva neanche guardare dalla finestra, perché si faceva peccato».

Musica e danze

Le loro balade (sono circa venti ed hanno ognuna un nome derivante da un lavoro semplice, da azioni comuni, dai fiori o dal nome di donne: Bal dù Jùzägn, Bal dä l’Urs, Bal Fräncès, Bas de Tak, Biondìnä, Busulù, Cädìnä, Fränceschètä, Ländärinä, Mäscärinä, Molètä, Monichèlä, Oibò, Pärtènsä ä Mänöèl, Pas en Ämùr, Rose e fiori, Sàltä’n bàrca, Sefolòt, Segnù, Spàsä cämì, Tonìnä, Zingärelä, Franziözä, Bal dä l’omì, Ariòzä) sono per due giorni accompagnate dal suono dei violini, delle chitarre, dei bassi e del mandolino. Suonare uno strumento è connaturato in chi partecipa alla festa e l’insegnamento avviene ascoltando e imitando gli anziani che tramandano ai giovani inesperti l’arte musicale; spesso prendono calci alle caviglie, quando sbagliano. In ottobre, mentre mangiano le castagne, prendono dal fodero i loro strumenti, creati da loro stessi, compresi i violini, e si preparano per la festa più importante dell’anno.

Stando agli Statuti quattrocenteschi, i due giorni di carnevale vennero aggiunti, a scopo meramente propiziatorio, alle centodieci festività dei Santi, in cui i «consoli non davano ragione». Sacro e profano si fondevano indissolubilmente fin dall’inizio. In particolare, la Madonna de la bursa seca, che era venerata dai ballerini, era una stampa della Madonna delle Grazie ed esposta solo nei giorni di carnevale.

Le danze colpiscono per la loro compostezza, non comune per un carnevale che vive nella strada. Questo deriva dal fatto che ogni ballerino si sente simbolo di un omaggio: generalmente i balli vengono eseguiti su due file parallele e i ballerini, che sono tutti uomini, vengono divisi tra «i capi» (l’uomo) e «figure» (la donna) alternativamente, in modo che si fronteggino sempre due capi. Lo schema di danza si riconduce a balli di palazzo e le musiche, di straordinaria delicatezza compositiva, contribuiscono a creare un’atmosfera nobile. Il ballerino che comanda la ballata è di diritto il primo capo: balla all’inizio della fila e a volte è presentato, ma senza fare il suo nome, dal capo al destinatario dell’omaggio.

Ogni danza ha figure differenti, ma tutti i balli, salvo l’Ariòzä, si svolgono secondo lo stesso schema: tutte le coppie di capi ballano prima tra loro, poi, quando il ritornello musicale si ripete, i capi ballano con le figure a loro vicine en crus. L’unico ballo che ha una forma diversa è l’Ariòzä, per la quale i danzatori si dispongono in cerchio, ballando alternativamente con tutte le figure presenti nel cerchio prima che la musica cambi. Quando il capo ha fatto tre volte il giro del cerchio, l’ultimo giorno, con questa danza, finisce il carnevale e ci si saluta con la nostalgia dell’allegria dei giorni trascorsi.

La maschera carnevalesca spersonalizza l’individuo e assume un’identità propria. Questo avviene usando la voce in falsetto per non farsi riconoscere: grande offesa è chiamare una persona mascherata col suo nome, spiarla per riconoscerla nei rari momenti di riposo, in cui inevitabilmente si mostra nella sua normalità. La maschera è la chiave per aprire le porte di un mondo magico, non fantastico, in cui si celebra la gratitudine di appartenere ad una comunità con l’omaggio danzante, ma anche la fiducia e la condivisione in una liturgia laica, non finalizzata alla spettacolarizzazione, come accade, ad esempio, nel carnevale di Venezia.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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