Le Opere e i Giorni

Inserire i posti nel Tempo, nel suo scorrere assoluto, è fondamentale per capire le distanze e tra noi e loro e tra l'uno e l'altro di essi. Le relazioni cronologiche tra i siti non sono passibili di grandi modifiche (ci saranno studi e precisazioni, ma in via generale che i Camuni abbiano fatto le incisioni prima della calata dei Longobardi è indubitabile), ma non sono così facili né da stabilire e a volte neppure da comprendere.
Noi siamo un passeggero accidente nel loro percorso, ma tracciare una linea del tempo, seppur imprecisa, è sempre utile. Non è impresa facile, soprattutto per quanto riguarda la preistoria, stabilire date esatte, a parte quelle definite con precisione millimetrica dalla dendrocronologia e, con maggiore approssimazione ma sempre in modo attendibile, dal Carbonio 14, che si utilizzano sul legno e sul materiale organico, non sulla pietra. Tale indubitabile realtà scientifica non sempre è nota, visto che la cinematografia pullula di pellicole in cui sedicenti archeologi datano oggetti inorganici con il carbonio 14.
La palafitta del Lucone è più recente di alcune incisioni rupestri, ma più antica della gran parte di esse, essendo l'Età del Bronzo antecedente all'Età del Ferro, alla quale appartiene la maggior parte di esse. L'Età del Ferro inizia nel 900 a.C. e va avanti fino all'arrivo dei Romani (la valle si romanizza tra il I secolo a.C. e il I d.C.). Tra il Lucone, che viene abbandonato nel 1900 a.C., e lo sciamano piumato di Naquane, risalente al V secolo a.C., corrono in pratica millecinquecento anni, all'incirca gli stessi che ci sono tra il tempio capitolino (73 d.C.) e gli affreschi di Santa Maria in Solario (1513), e le mura bergamasche (1561-1588). In pratica come tra noi e la discesa dei Longobardi in Italia.

La chiesa di San Salvatore, il nucleo originario da cui si è sviluppata Santa Giulia, è del 753, gli affreschi di Paolo da Caylina il giovane nel Coro delle Monache sono del 1527 e la chiesa di Santa Giulia fu costruita dall'architetto Giulio Todeschini dal 1593 al 1599. Otto secoli di lavori nelle chiese del monastero quasi quelli che ci separano dalla peste del Trecento e dall'Ultima Crociata (la nona).
Santa Giulia è in parte coeva alle mura bergamasche ed entrambe sono lontane tre secoli dal Villaggio Crespi (costruito nel 1876-77), circa gli stessi trascorsi tra la fine dell'Impero Romano d'Occidente e gli anni dell'edificazione di San Salvatore.
Può sembrare un gioco e lo è, ma prendere le misure con il passato e tra le cose del passato aiuta a inquadrarle, dà loro più senso ai nostri occhi inesperti, ci rende stupefatti per la loro modernità e per la grandezza di visione di chi le ha realizzate. Forse non le rende più comprensibili, ma posizionando i siti nello spazio e nel tempo riusciamo a immedesimarci nel fluire degli eventi storici e a posizionare noi stessi, per il poco che siamo, nella millenaria meraviglia di questa porzione di Lombardia (e di Italia).
Ma saper posizionare i siti nello spazio-tempo non basta per apprezzarli appieno. Bisogna anche capire qual è il clima e il momento giusto per ciascuno di loro. Sì, perché ogni luogo ha una stagione e un clima che lo prediligono. Essi lo amano e l'amore è solitamente corrisposto, poiché questi siti contengono l'anima di coloro che li hanno creati, sono intrisi delle loro difficoltà, delle loro emozioni, della loro esistenza. Ognuno di essi ha un'intrinseca condizione che gli consente di essere apprezzato quanto merita: insomma, che lo rende bello. Bello come il sole, come la pioggia, come la nebbia, come il tramonto, l'alba, il giorno, la notte, l'estate.
Qual è il modo migliore per cogliere il momento migliore di ciascun sito? Semplice, o ci si va tutte le volte che servono o si è fortunati e lo si trova subito perfetto o lo si immagina diverso da come si presenta davanti a noi nell'occasione in cui lo visitiamo. Certo, una parte della bellezza è in chi guarda, in come ci si è svegliati, nelle preoccupazioni che si portano con sé, nel gusto individuale, nelle personali inclinazioni storico-artistiche.
Non si può avere tutti i giorni il cuore più leggero di una piuma: ciò vale per le persone e anche per i monumenti. A volte non si è in forma, a volte c'è un clima inadeguato, a volte è tutto sbagliato. A volte si riesce a scorgere la perfezione, a volte la perfezione risulta fredda. Tanto vale quindi andare per tentativi, andare per istinto. Andare punto e basta, tenendo sempre bene a mente che questi siti sono nati per restare e noi siamo un evento passeggero nella loro conquistata continuità (dire eternità sarebbe troppo anche per loro, sebbene la speranza è che ci sopravvivano e di molto).
Non si può sempre avere il cuore leggero come una piuma, ma non si deve mai escludere che queste cinque meraviglie possano rendere il nostro animo lieve, anche se la giornata non è partita con le migliori premesse. Poi ogni scenario suggerito è opinabile, poiché è il luogo medesimo che si interfaccia con chi lo guarda. Eppure ci sono suggestioni intrinseche a ciascun sito.
Autunno

Mettiamo il Villaggio Crespi. Ecco, è avvolgente in autunno, quando la nebbiolina del mattino e l'umido del tardo pomeriggio e l'odore di fumo delle stufe accese (che ci sia davvero non importa, l'importante è lasciarsi suggestionare) sono un abbraccio che entra nelle ossa e riporta ai tempi d'oro della fabbrica, con la frenesia di chi andava e veniva e il rumore delle turbine e le luci accese. Si riesce quasi a cogliere l'attimo in cui suonava la campanella dell'inizio della scuola e la sirena dell'apertura mattutina della fabbrica, mentre tutti uscivano dal cancello di casa e si dirigevano verso la propria postazione di lavoro. E, nel tardo pomeriggio, la sirena di fine lavoro, con le madri che tornano a casa e gli uomini che vanno al dopolavoro e i bambini che giocano per strada o in giardino.
Gli otto parchi delle incisioni rupestri si lasciano scoprire in autunno, quando il sole è radente, sotto una pioggia fitta e sottile che mette in evidenza i graffiti. Li dipinge e li lucida per noi, per rendere la nostra mente, una volta lucidata e dipinta, capace di vedere con chiarezza l'amore per il Sole che le ha ispirate e che proprio il Sole, quando splende sulla roccia, rende meno facilmente individuabili e interpretabili.
Estate

Le palafitte sono l'estate, quando la vallecola è verde di ulivi e di filari di viti e il mais si stende pacifico come un oceano verde dove c'era il lago. Ad agosto gli steli sono così alti che, arrivando a piedi dal sentiero o in auto, lo scavo del Lucone, brulicante di scavatori, sbuca di sorpresa dal granturco. Il tendone dello scavo, grande e bianco com'è, si vede arrivando dalla strada che scende da Muscoline, attraversa Polpenazze e porta a Manerba, pertanto è difficile non vederlo. Ma, nel momento in cui si lascia la strada e si intraprende lo sterrato che c'è all'inizio del sentiero si fa un balzo spazio-temporale, aiutato dalla presenza di un alto dosso che rende proprio l'idea di uno stacco, anzi di un distacco, dal mondo, e si entra in un'altra dimensione.
Il mais, nutrito da quella terra sempre umida che è la torba, svetta ben oltre le teste di chi arriva e delimita il sentiero che porta allo scavo, il quale, oltre al cereale arrivato dalle Americhe, è circondato da alberi e, dietro, da un allegro rigagnolo.
Il campo di pali sotto il tendone, dove lavorano gli archeologi, non dà l'idea di essere estraneo all'ambiente bucolico che lo circonda, anzi ne è parte integrante. È come se un pezzo fondamentale di questo posto, sepolto dall'abbandono, dai crolli e dal prosciugamento del lago, fosse rispuntato dalla terra. Una riserva naturale lo circonda e lo completa.
Al posto del mais al tempo delle palafitte c'erano campi di frumento, animali che pascolavano, un aratro come quello del Lavagnone che passava smuovendo la terra per piantare i semi del futuro raccolto, piroghe che viaggiavano da una parte all'altra del lago ora coperto di vegetazione, bambini che facevano il bagno, adulti che ogni tanto si univano a loro per rinfrescarsi. Anche a inizio settembre lo scavo ha la sua poesia, più crepuscolare, con il mais ormai tagliato, la vendemmia conclusa, lo scavo finito.
I palafitticoli si preparavano all'autunno e all'inverno, che sarebbe stato lungo e freddo, ma avrebbero avuto tanto tempo da dedicare ad altro. Magari non a leggere, ma a produrre vasi e cesti, ad apportare migliorie alle loro case, a inventare nuove cose. Magari a uscire a caccia. Niente di vergognoso, nessun luogo di perdizione come nelle leggende. Solo un normale villaggio di persone straordinarie.
Le stagioni di mezzo

Le mura veneziane richiamano la fine dell'autunno e l'inizio della primavera, quello con le giornate limpidissime che creano sui bastioni una patina di porcellana trasparente. Diventano luminosi, come se in quel momento si realizzasse appieno la volontà della Serenissima che quel diadema difensivo che incorona la parte alta della città fosse visto il più lontano possibile.
Passeggiare sulle mura in pieno inverno, con il naso gelato e intabarrati, di giorno o in una notte stellata, fa sentire leggeri. Certo, la sensazione cambia se ci si ferma a riflettere su come stavano i soldati che passavano qui le loro giornate e nottate facendo la guardia e i cosiddetti «ragazzi», come li definiscono le fonti, addetti all’aiuto dei bombardieri nelle cannoniere della fortezza.
Non conoscevano il romanzo il Deserto dei Tartari perché non era ancora stato scritto, ma la loro vita si svolgeva proprio come nel romanzo di Dino Buzzati (che è del 1976): vivevano e si affaccendavano nell'attesa di un nemico che non sarebbe mai arrivato. Le mani di chi percorre questi camminamenti non tengono più fucili, si stringono tra loro.
I bastioni ascoltano con ogni centimetro dell'arenaria di cui sono fatti, assorbono dolori e gioie con ogni pietra di spoglio staccata agli edifici demoliti. Ma nelle mura c'è anche un pezzo di primavera. È vicino a Porta Sant'Agostino, dove sorge il baluardo della Fara (una delle ultime parti della struttura a essere ultimata, da Giulio Savorgnan, dopo la morte di Sforza Pallavicino) che, insieme alla cortina della Fara, proteggeva l'area tra il baluardo di Sant'Agostino e quello di San Lorenzo, con relativo omonimo prato. Ecco, questo prato è il pezzo di primavera. Un tempo era inaccessibile in quanto proprio lì si apriva una grossa buca (il fupù), che fu riempita negli anni Trenta (ormai i bergamaschi erano esperti in tale genere d'intervento) e oggi quel prato è una zona panoramica dove sedersi, rilassarsi e prendere il sole. Si stende davanti alla ex-chiesa di Sant'Agostino, che da convento diventò caserma e ora è l'Aula Magna dell'Università degli Studi di Bergamo. Nei chiostri non ci sono più monaci né soldati, ma studenti.
Primavera

Santa Giulia è la Primavera. Lei e il Capitolium sembrano fatti apposta per una mattina di maggio. Percorrere i chiostri, il Corridoio Unesco, fermarsi davanti al teatro, camminare tra le colonne del Tempio Capitolino, salire la scala che porta alla biglietteria e appoggiarsi alla balaustra per guardare le rovine rinate fa rinascere insieme a loro. E tutte le parti in interno? Le chiese del monastero, il coro delle monache, le Domus dell'Ortaglia, il tempio repubblicano oggi sotterraneo, la Vittoria Alata chiusa nella penombra cosa c'entrano con questa mattina di maggio? Tantissimo.
Entrare con gli occhi pieni di sole e doversi abituare alla semioscurità è un bel modo per concentrarsi, per ritrovare la lentezza che questi luoghi invocano ed evocano e che è necessaria a cogliere i dettagli, a lasciarsi andare all'atmosfera di pace di cui sono intrise sculture, lapidi, affreschi, croci, colonne, mosaici. E poi uscire con gli occhi pieni di una luce diversa, più interiore, e ritrovare la stessa splendente giornata di maggio, i chiostri, le colonne e tutto il resto.
Anche gli altri siti sono piacevoli in primavera – cosa esiste che in questa stagione non appaia più piacevole? –, ma il valore aggiunto di Santa Giulia è il chiaroscuro esaltato dalle settimane che precedono il solstizio d'estate e dall'ombra sapiente degli interni.
Buio e luce si fondono, come nelle case, come nelle storie. Come nella vita. I muri non hanno colpe e non hanno orecchie. Ma un'anima, composta dalle centinaia di migliaia di anime che li hanno sfiorati e ci hanno vissuto dentro, un'anima quella sì, ce l'hanno.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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