«Veleni negati», dietro le quinte del caso Caffaro
Ci sono emergenze talmente grandi da scavalcare i decenni, immobili. Sono quelle in cui i fatti più determinanti spesso accadono quasi sempre nei primi cento giorni: tre mesi per gestire la «bomba» nell’immediato - mediaticamente e politicamente -, ma anche per tracciarne il destino. Pianificando, studiando, decidendo se prenderle di petto o tentare di governarle semplicemente abbassando l’asticella del clamore, facendo in qualche modo «rientrare» l’allarme percepito. E la grande emergenza con la quale Brescia si trova faccia a faccia da ormai oltre vent’anni si chiama caso Caffaro.
Per non scordare come mai la storia della nostra città conosce una così lunga stagione avvelenata, Marino Ruzzenenti - a cui si deve la prima ricerca storica sul disastro ambientale che stravolse la vita del nostro capoluogo - ha ripercorso, tappa dopo tappa, i passaggi cruciali dei «Veleni negati», parole che danno il titolo al suo nuovo saggio edito da Ecologica e presentato martedì a San Cristo: 146 pagine che partono dal 2001 e arrivano ai giorni nostri. Tra i retroscena destinati a diventare la memoria storica di quel che è stato, c’è il racconto della «bonifica all’italiana», la cronaca delle giornate chiave, quelle in cui era fondamentale decidere.
L’ansia «autolesionista dettata dall’irrefrenabile desiderio di ricacciare sotto il tappeto lo sporco fatto riemergere in quel maledetto 13 agosto 2001 - scrive Ruzzenenti - ha segnato l’intero percorso della vicenda». L’ambientalista lo dice chiaro e tondo: ci si trovò di fronte a un disastro di proporzioni inimmaginabili, oltre che a una generale impreparazione tecnica e scientifica. «Il Comune, con l’allora sindaco Paolo Corsini e l’assessore all’Ambiente Ettore Brunelli, aveva commissionato un’analisi di rischio che in conclusione proponeva di elevare di 290 volte i livelli accettabili di Pcb nei terreni, ignorando che comunque i terreni erano e sono contaminati da livelli analoghi di diossine, i cui limiti sono stabiliti dall’Oms» e, dunque, invalicabili.
Nonostante il niet degli scienziati, però, il 3 aprile 2006 arrivò il decreto, che elevò i valori dei policlorobifenili di 60 volte. «Così - rivela il saggio - si è ottenuto il risultato paradossale che nei terreni inquinati dell’unica fabbrica che a livello nazionale ha prodotto per mezzo secolo i Pcb, questi non sarebbero i contaminanti principali, bensì le diossine». Paradosso che ha resistito anche dopo il 2013, quando i Pcb furono classificati cancerogeni certi per l’uomo. «C’è da chiedersi - è la conclusione del libro - come sia stata possibile una così cattiva gestione del caso Caffaro». Perché «certamente vi è una specificità bresciana».
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