Trent'anni fa la Grande Nevicata che imbiancò Brescia

Scuole e uffici chiusi, foto e video a documentare l'evento straordinario: inviateci i vostri ricordi
Teletutto, la Grande Nevicata. Il servizio di Fulvio Manzoni del 2005
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Non passa inverno senza che la mente corra a quel gennaio dell'85, a quei giorni straordinari che regalarono sì qualche disagio, ma anche paesaggi mozzafiato che Brescia e la sua provincia non avrebbero più rivisto.

Neve ovunque: in cielo, per le strade, sui tetti, nelle benne delle ruspe pronte a cavalcare, spostare e ammucchiare la spessa coltre bianca in ogni angolo utile.

Fu un evento storico: la Grande Nevicata del 1985. Qualcosa che nemmeno i più anziani, a quel tempo, avevano mai visto.

Sono passati 30 anni. Era una domenica, il 13 gennaio, e i primi fiocchi iniziavano a cadere su città e provincia. Lunedì 14 le scuole rimasero chiuse, molte fabbriche e molti uffici pure, lasciando i bresciani liberi di godersi quell'onda bianca arrivata in gennaio.

Giorni memorabili, ancora oggi legati a ricordi speciali da riscaldare alla vista della prima neve. Neve che quest'anno latita, e al suo posto arriva allora il trentesimo anniversario di quell'evento straordinario a rianimare i racconti, le fotografie e anche i video di una Brescia ovattata.

Noi abbiamo recuperato dai nostri archivi scatti e servizi tg che vi proponiamo in questo articolo. A gdbweb@giornaledibrescia.it potete mandare i vostri aneddoti o le vostre immagini, foto o video che siano. Potete mandare materiale anche via Whatsapp al numero 389/5424471

La grande nevicata del 1985 - LE FOTO STORICHE

Nel Giornale di Brescia in edicola lunedì 12 gennaio ampio spazio al trentesimo anniversario.

Iniziamo ora pubblicando alcuni dei nostri ricordi.

La grande nevicata del 1985 è stata per me un grande insegnamento, che io  purtroppo sono stato così stupido da non ascoltare. In quel tempo ero insegnante di Lettere all’Itcg (geometri, dunque), di Darfo Boario e, per tutto il tempo in cui le strade rimasero impraticabili, le scuole rimasero chiuse regalandomi giorni di vacanza, purtroppo vanificati dal fatto che ero pure collaboratore del Giornale di Brescia e quindi dovevo muovermi per fare il punto della situazione (ricordo a tutti, soprattutto a quelli più distratti, che non c’era Internet, né i cellulari: bisognava alzare le chiappe). Come avrei saputo anni dopo, il mio futuro amico Enzo Gallotta, sceso in città dalla sua  Toscolano per lavoro, dovette in quegli stessi giorni fermarsi in albergo a Brescia, naturalmente lavorando sempre per il suo giornale, mentre io facevo a palle di neve con gli amici in piazza Garibaldi a Iseo. Qual era, dunque, il grande insegnamento della grande nevicata? Meglio fare il professore che il giornalista. Io, invece…

Giuseppe Antonioli

 

Due sono i ricordi che fondamentalmente lego a quelle formidabili giornate dell’altrettanto formidabile nevicata del 1985. Il primo fu un giocare d’anticipo sugli eventi che dal giorno successivo - come s’intuirà di seguito – mi avrebbero accomunato nella più lieta delle sorti a tutti gli altri alunni della gloriosa scuola elementare Collodi di Bovezzo. Doveva essere il 13 o il 14 di gennaio, la neve, fatto sta, era già bella alta. Mio papà stava sudando sette camicie per liberare il vialetto d’accesso a casa e il marciapiede letteralmente sommersi da neve a non finire. Io nello slancio di rendermi utile – o vinto dall’irrefrenabile desiderio di scagliare la prima palla di neve? Chi può dirlo… - mi avventurai dietro di lui, accorgendomi tardi che la neve che a lui arrivava al polpaccio, a me finiva con l’avvolgere quasi tutta la gamba. E dal momento che non avevo indossato moon-boot o stivali di sorta, in cinque secondi netti ero da strizzare. Erano le 8 passate, troppo tardi per cambiarmi da capo a piedi e arrivare per tempo a scuola. La mamma – solitamente irremovibile sulle urgenze didattiche – fu categorica: “Tanto vale che stai a casa per oggi”. Una pacchia. Al bis – prolungato – ci pensò il gelo che dal giorno dopo fece collassare le povere vecchie caldaie della scuola, come accadde in mezza provincia. Il resto dei ricordi sono in bianco, più che in bianco e nero. Qua e là spuntano battaglie all’ultima palla di neve, una tuta impermeabile verde fluorescente e un paio di pupazzi senza carota per naso. Badili (il mio, di cui ero fiero, era su misura, curiosamente in tinta con la tuta nella parte metallica) e sfacchinate per rendere il piazzale condominiale e marciapiedi praticabili. Con l’orgoglio di fare una cosa da grandi. Poi un giorno la neve iniziò a sporcarsi e a puzzare di smog, pure. E ci mise un’eternità a sciogliersi. Ma questa è un’altra storia.

Gianluca Gallinari

 

Avere 12 anni nella grande nevicata del 1985 fu una fortuna. Nessuno di quelli come me, nati negli anni Settanta, si accorse dei disagi (tanti) in città, ma accolse quei fiocchi di neve che sembravano non finire mai come una festa, un’assoluta e autentica festa. Scuole chiuse, nessun compito da fare, per chi abitava in periferia (allora Lamarmora lo era ancora…) la grande possibilità di approfittare delle zone ancora senza case, da sfruttare quindi con slitte e bob, ambiti come poco altro.

Ognuno si attrezzò al meglio: chi aveva la tuta da sci era fortunato, ma “fantozzianamente” ognuno creò il suo personale abbigliamento da neve. Furono giornate infinite, all’aria aperta, al freddo, ma assolutamente particolari: perché si poteva giocare ovunque non essendoci alcuna macchina per strada, perché l’aria ovattava regalò un senso di libertà assoluta. E vedere solcare via Rodi da ragazzi con gli sci da fondo resterà per sempre una delle immagini più belle di me dodicenne.

Gianluca Magro 

 

All’ennesimo fiocco, all’ennesimo cumulo, all’ennesimo scivolone, pensai che quei giorni sarebbero stati consegnati alla storia di Brescia, oltre che alla mia personale. 
 
Non dovendo andare all’università perché avevano posticipato l’esame e non collaborando ancora col giornale, mi sentivo libero (sì, al massimo qualche spalata davanti al cortile di casa), potendo farmi forte della spensieratezza dei vent’anni. 
 
Mi trovai così a giocare con l’infinità di quel bianco che mandava in bestia chi non poteva prendere l’auto, chi doveva rinunciare al lavoro, chi era sperduto sui treni, chi non riuscì a prenderne nemmeno uno e rimase a Milano Centrale.
 
Ora che ci rifletto, la Grande nevicata rappresentò il mio personale limbo, quel periodo di mezzo tra l’età verde e l’età adulta. Bianca come i fiocchi di quel gennaio ’85.

Roberto Bernardo

 

Mia mamma incinta con mia sorella nella pancia, mio papà in strada con gli sci, io col bob in giardino, in esplorazione del cumulo attorno all’albero che non bucava i palloni. L'altro era un inferno di spine che nemmeno la neve rese avvicinabile. Non ho mai capito perché l’avessero piantato. L’anno dopo, in prima elementare, rivedemmo i fiocchi cadere, ma si fermarono alla svelta, nonostante i nostri incitamenti dall’aula coi finestroni.
 
Il nostro cane Brillo ogni tanto scappava di casa, mi agitavo ogni volta che vedevo un volpino per strada, ma poi alla fine ritornava: la grande nevicata dell’ottantacinque no, quella proprio no. 

Emanuele Galesi

 

“Un’epoca di non più e non ancora…”, diceva il professore di latino e greco raccontandoci la letteratura. Ecco, nella mia letteratura personale quei giorni di neve eccezionale si sarebbero trasformati in “un’epoca di non più e non ancora”: con l’Arnaldo chiuso, e quindi un’insperata sospensione di ogni cura scolastica dopo le vacanze di Natale; ma soprattutto con una città insolitamente lenta e un silenzio, nell’aria, in grado di amplificare le promesse che risuonavano nella mia testa di adolescente. Nemmeno gli adulti sembravano particolarmente preoccupati per le conseguenze della nevicata, e allora tutto sarebbe andato bene. Ogni cosa sarebbe stata possibile, quasi che sotto tutto quel bianco stesse maturando la parte migliore di ognuno di noi. Del resto, molte piccole imprese lo lasciavano presagire. Come quella del ragazzo in moon boot  che, dopo un cammino lungo fino all’ora del buio, arrivò a casa mia con una dichiarazione d’amore urgente. La destinataria non ero io. A me sarebbe toccata, il giorno dopo,  una battaglia a palle di neve con Sandro, il mio vicino di casa-amico da sempre. Una bellissima battaglia sulla rampa che conduceva ai garage, che ci lasciò sfiniti e felici come due bambini. La mia ultima battaglia a palle di neve.

Francesca Sandrini

 

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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