Sul sapèl della notte con un gesuita del ’600
Ma guarda un po’ se per ritrovare il sonno dovevamo rivolgerci a un avvocato parigino del ’600, formato dai gesuiti e appassionato di latino medievale. Eppure è proprio grazie agli studi di Charles du Fresne, sieur du Cange (e in particolare al suo «Glossarium mediae et infimae latinitatis») che possiamo rispondere alla richiesta arrivataci via mail da Ludovico, prezioso e sensibile conoscitore di cose bassaiole. Ci scrive: «Nel nostro dialetto il sapèl indicava quel tratto di perimetro del campo dal quale si accede al campo stesso. Attraverso il sapèl si lasciava la strada e si accedeva al campo. Spesso era (ed è) un ponte, ma non necessariamente».
La sua domanda: ma da dove arriva quel termine? Roba da non dormirci, tra vocabolari e archivi. La risposta ci arriva dal secentesco du Cange: «sapellum vel sapellus est apertio». Insomma: è un’apertura, come la chiamavano nel latino medievale. Sulla sua scia, altri parlano di «callaia, valico di siepe» oppure di «passaggio», «varco», «sentiero». Il termine è diffuso dalle Alpi francesi a tutto il Settentrione, parlate venete escluse.
Il Gabriele Rosa ricorda che negli Statuti di Bergamo del 1391 venivano normati gli obblighi a «consare sapellos», cioè scavare e sistemare sentieri. E se nel Cremonese alcune località (come i Supèi a Madignano) fanno riferimento al tratto di ingresso ai campi, sulle Alpi più facile che il termine indichi un sentiero. Come quel Zappello dell’Asino che un’autorevole amica - aprichese docg - mi assicura si pronunci tzapèl da l’àsen. Adesso possiamo varcare il sapèl della notte sapendo che dormiremo. Merci bien, mon sieur du Cange.
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