Silvio Ferrari e il clima prima della Strage di piazza Loggia

L'attivista di estrema destra morì il 19 maggio 1974 vicino a piazza del Mercato a Brescia. Ecco cosa accadde prima e dopo
Messi a fuoco su Teletutto - Il clima di terrore e la morte di Silvio Ferrari
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Interviste: Andrea Cittadini, Salvatore Montillo
Video: Guido Zubani, Paolo Bergamaschi, Maddalena Damini
Testo: Francesca Renica

Quarantasette anni fa, nella notte del 19 maggio del 1974, moriva a Brescia il giovane Silvio Ferrari. Restò ucciso vicino a piazza del Mercato, nell’esplosione della bomba che stava trasportando sulla pedana della Vespa del fratello. L’ordigno era fatto da mezzo chilo di tritolo e mezzo chilo di polvere da mina, con innesco ad orologeria. Tra le tante ipotesi era stata avanzata quella che gli stessi camerati di Ferrari avessero sabotato il timer per far esplodere la bomba in anticipo ed eliminare il 21enne, perché si pensava volesse abbandonare l’estremismo di destra. Secondo molte perizie, invece, l’esplosivo era in cattivo stato di conservazione. Vicino a quel che resta del corpo di Ferrari, dilaniato dall’esplosione, la Polizia trovò delle copie di «Anno zero», rivista ufficiale di Ordine Nuovo, movimento politico di estrema destra. Dopo la morte del giovane, la città si ribellò e fu organizzata la manifestazione antifascista del 28 maggio.

Chi era Silvio

La ricostruzione - La notte tra il 18 e il 19 maggio 1974

Nato in città nel 1953, Silvio era un attivista di estrema destra. «Un giovane idealista, lo voglio ricordare come un cavaliere senza macchia e senza paura» lo descrive l’avvocato Arturo Gussago, intervistato da Andrea Cittadini per la trasmissione Messi a fuoco di Teletutto, che venerdì 21 maggio era dedicata agli anni’70 e al clima di terrore legato alle stragi e agli attentati. Alla puntata hanno preso parte anche l’avvocato Andrea Ricci, legale di parte civile del processo per la Strage di piazza della Loggia, e i giornalisti Paolo Barbieri (Ansa Milano) e Enrico Moreschi, collega che si occupò della cronaca di quella notte.

Arturo Gussago, che conosceva bene Ferrari e che era stato coinvolto nella prima inchiesta sulla Strage, aveva preso parte con lui e altri amici alla sua ultima serata. Dopo aver cenato, erano andati a casa di un’amica sul Garda, a San Felice del Benaco, dove avevano fatto baldoria e Ferrari aveva bevuto parecchio. «Si è riso, si è scherzato, si è fatto anche qualche canto nostalgico. Lo scopo della serata era far compagnia alla nostra amica Sofia, gravemente malata, che è morta qualche mese dopo» racconta sempre Gussago.

Prima delle due, Ferrari fu riaccompagnato a casa: morì poco dopo, attorno alle 3.30. Secondo Carlo Maria Maggi, mandante della Strage di piazza della Loggia condannato all’ergastolo e morto nel 2018, Silvio cadde dalla Vespa perché era ubriaco. Una tesi che non coincide però con quanto evidenziato da una perizia dell’epoca, che sostiene che il ragazzo avesse i piedi a terra e i gomiti appoggiati sul manubrio. Probabilmente stava attendendo che la guardia notturna si allontanasse per piazzare la bomba. «Si era detto che voleva mettere quell’ordigno sotto la sede del Corriere della Sera in piazza Vittoria» ha raccontato Gussago.

I precedenti

«Che Silvio disponesse di esplosivi e facesse questo tipo di cose lo sapevo - continua Gussago - anche se non lo dissi subito agli inquirenti, tanto che mi costò una denuncia per reticenza. Quando l’amico Nando Ferrari il giorno dopo mi disse che era saltato in aria, la cosa non mi sorprese».

A febbraio del 1974, Silvio Ferrari aveva lanciato una bomba a mano (Srcm mod.35 in dotazione all’Esercito) contro la sede del Partito Socialista Italiano, con il gruppo di estrema destra Avanguardia Nazionale. A distanza di pochi giorni, aveva partecipato al posizionamento di una bomba fuori dal supermercato Coop di viale Venezia. A marzo aveva scagliato una molotov contro un corteo a favore della liberazione dell’anarchico Giovanni Marini, in carcere dopo aver ucciso a coltellate Carlo Falvella, militante del Fronte Universitario d’Azione Nazionale. Il 1° maggio fece un primo tentativo di collocare un ordigno davanti alla Cisl, mentre il 9 mise una bomba in una macelleria in via Ducco.

Un’escalation di episodi sempre più violenti che si colloca in un contesto molto caldo per Brescia, figlio di un clima di terrore e paura e che sfocerà poi nella Strage del 28 maggio. Furono mesi punteggiati da attentati e provocazioni. A marzo venne arrestato il neofascista Kim Borromeo, trovato in Valcamonica con mezzo quintale di esplosivo nel baule dell’auto, esplosivo che proveniva da un’azienda legata a Carlo Fumagalli fondatore del Mar (Movimento di Azione Rivoluzionaria). L’8 maggio fu trovata una borsa davanti alla sede della Cisl di via Zadei: dentro c’erano otto candelotti di dinamite e tre etti di tritolo innescati con un detonatore ed una miccia.

Il giornalista Paolo Barbieri, collegato via Skype con gli studi di Teletutto, racconta: «All’epoca ero un liceale, conoscevo il giro dei fascisti di cui faceva parte Ferrari perché spesso alla mattina venivano fuori dall’Arnaldo e dal Gambara a manganellare gli studenti. Erano ragazzotti che facevano avanti e indietro dalla sede del partito Msi di Brescia e avevano studiato al collegio Tumminelli di Gardone Riviera».

Il funerale

La ricostruzione - Il funerale di Silvio Ferrari

L’ultimo saluto a Silvio avvenne nel cimitero di San Francesco di Paola, dove fu deposta una corona di fiori con l’ascia bipenne, simbolo di Ordine Nuovo, e la scritta «Camerati anno zero». Qui fu eseguito il rito dell’appello fascista e gli amici del defunto annunciarono «propositi di vendetta per la morte del camerata». Seguirono tafferugli tra estremisti di destra e di sinistra, che sfociarono nell’arresto di cinque studenti veronesi.

La tensione prima di piazza della Loggia

La ricostruzione - Il clima di terrore

Il giorno delle esequie, il Giornale di Brescia ricevette una lettera del «Partito Nazionale Fascista - Sezione di Brescia. Silvio Ferrari» che minacciava nuovi attentati. Come ricostruito in seguito, la lettera fu spedita da Ermanno Buzzi, che fu ucciso in carcere a Novara il 13 aprile del 1981, strangolato da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. Era stato condannato nella prima inchiesta sulla Strage, ma nel 1985 la Corte d’Appello di Venezia, quando annullò la sentenza di primo grado, lo definì, ormai morto, «un cadavere da assolvere». Seguì un’altra missiva del 27 maggio, inviata alla stampa da parte di Ordine Nero Gruppo Anno Zero, che annunciava che nel mirino erano finite le forze dell’ordine.

Secondo l’avvocato Andrea Ricci «Nessuno dei carabinieri presenti alla manifestazione in piazza Loggia era stato avvisato di queste minacce. Se i carabinieri non si fossero spostati per la pioggia, l’attentato avrebbe colpito il drappello dei militari guidato dal tenente Ferrari». Anche secondo Manlio Milani, presidente della Casa della memoria intervistato da Salvatore Montillo, «in quel messaggio, non pubblicato dal Giornale di Brescia su indicazione della Prefettura per non inasprire il clima di tensione, c’è un vero e proprio annuncio: erano già pronti prima dell’esito del referendum sul divorzio. C’era una volontà precisa di colpire la democrazia». Gussago si chiede: «Senza la morte di Silvio Ferrari ci sarebbe stata la Strage di piazza della Loggia? Probabilmente no». Per Andrea Ricci, invece: «Non ho elementi certi per dirlo, gli atti dicono però che la Strage era stata pensata ben prima del 19 maggio, la notte in cui Silvio Ferrari perse la vita».

 

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