Residenze sanitarie e comunità: in Lombardia continua il lockdown
Caterina non vedeva il marito malato d’Alzheimer da oltre quattro mesi, settimane lunghissime in cui «voleva solo morire», racconta. Qualche giorno fa, finalmente, è riuscita a rivederlo nella struttura in cui è ospitato da anni, a Brescia: «A due metri di distanza, per un quarto d’ora - dice -. Ero disponibile a comprare tutto il necessario per potermi avvicinare, ma non è possibile». Ora non sa quando potrà rivederlo, dato che la lista di attesa degli altri familiari è lunga.
Riccardo, invece, vede sua madre morire lentamente, dietro al vetro della casa di riposo in cui vive. La donna, che ha più di novant’anni, non ha accettato la fine degli incontri con i figli ed è caduta in depressione, smettendo di mangiare. «Sembra che sia arrabbiata con noi, abbiamo provato a spiegarle la situazione, ma non è facile. Ora è un’agonia».
I genitori di Valentina possono incontrare la figlia, una donna di 42 anni ospite in una struttura per disabili, soltanto in giardino. «Se piove, salta la visita», racconta il padre. A Valentina sono precluse le trasferte temporanee a casa, le attività nel centro diurno, ogni cosa che preveda un contatto con persone esterne alla comunità. In questo modo, la sua condizione regredisce lentamente.
Sono tre storie di chi in questi giorni si sta scontrando con le disposizioni di Regione Lombardia sulle strutture sociosanitarie, contenute nell’atto di indirizzo del 9 giugno. Norme «ottuse», dicono gli interessati, «che se ne fregano dei malati e delle loro famiglie». Perché la Fase 2 nelle residenze per anziani, nelle comunità per disabili, o ancora nelle strutture che ospitano minori, nella nostra regione di fatto non è mai iniziata. Gli ospiti, che siano novantenni con gravi patologie o sedicenni inseriti in un percorso di recupero, sono tutti uguali, reclusi allo stesso modo. Genitori, figli o nipoti sono costretti a restare a distanza, mentre chi gestisce questi centri si confronta con imposizioni rigide, responsabilità sempre maggiori e quel senso di abbandono già sperimentato nella Fase 1 dell’emergenza Covid-19, quando le Rsa, in particolare, sono state teatro di drammi i cui segni non se ne andranno facilmente (e su cui sono aperte diverse inchieste), con 1600 morti solo nel Bresciano, su 6.800 posti complessivi.
«Quella della Regione Lombardia è una delibera che sarebbe stata estremamente preziosa nella fase acuta del contagio - commenta Valeria Negrini, presidente del Forum del Terzo Settore -. In quella fase avremmo avuto bisogno di indicazioni precise sulla gestione delle strutture, ma abbiamo dovuto arrangiarci. Ora quel tempo è passato, eppure il nuovo atto regionale impone un lockdown dei servizi sociosanitari che è fuori dal tempo e privo di logica». Per Negrini il documento è «interamente da riscrivere», a questo punto non resta che affidarsi al nuovo direttore generale dell’assessorato al Welfare, Marco Trivelli, scelto dall’assessore Giulio Gallera per sostituire Luigi Cajazzo. «Confidiamo in un dialogo che parta il primo possibile».
L’elenco dei punti contestati è lungo, a partire dall’equiparazione di tutte le strutture sociosanitarie, come case di riposo, residenze per disabili, comunità per minori o per tossicodipendenti. «Avevamo chiesto che non si mettessero in un unico calderone realtà diverse tra loro, ma non siamo stati ascoltati». Le regole per l’ingresso di nuovi utenti prevedono una diagnostica sul rischio Covid a capo delle strutture, come l'esecuzione di test sierologici, tamponi e verifiche sui contatti familiari. Tutte procedure che, oltre a incidere sui bilanci, «rischiano i farci impiegare un mese prima di accogliere gli ospiti», mentre ci sono lunghe liste d’attesa, oltre che diversi posti rimasti liberi dopo la strage compiuta dal virus.
Le visite dei parenti sono consentite solo in via eccezionale, con pesanti ripercussioni sugli ospiti e sui loro familiari. Ma i limiti riguardano anche le attività consentite alle persone che vivono in queste residenze. «Se si può fare solo un giretto in giardino, come facciamo a sostenere queste persone, a promuovere la loro autonomia, le relazioni sociali, le competenze?», si chiede Negrini. È tutto bloccato, «con una forte limitazione delle libertà personali» che coinvolge tutti, non solo i più fragili. La sicurezza va sì garantita, ma «serve buonsenso».
Ci sono poi problemi legati all’isolamento degli eventuali positivi: una casa di riposo può avere gli spazi per farlo, ma una comunità per minori no. «La Regione dice che in mancanza di spazi adeguati gli infetti vanno inviati a strutture diverse dagli ospedali. Abbiamo chiesto ad Ats quali siano queste strutture, ci hanno risposto che non lo sanno», aggiunge Negrini. C’è poi la questione del referente Covid, su cui ricadono grandi responsabilità e che non sarebbe sempre facile da individuare, ad esempio nelle comunità che non hanno un direttore sanitario, oltre al fatto «che non ci sono riferimenti alla parte economica, mentre i costi delle strutture sono aumentati».
La risposta a questo punto spetta alla Regione, che il Terzo settore chiama in causa non in maniera pretestuosa, con un attacco politico fine a sé stesso, ma specifica. «Ci aspettiamo un atteggiamento diverso», conclude Negrini, un dialogo come quello che c’è stato con l’assessore lombardo alle Politiche sociali, Stefano Bolognini, per l’apertura dei centri diurni. Che ora sono tornati accessibili, ma non, ad esempio, per chi è ospite in comunità. Un bel (si fa per dire) paradosso che le persone coinvolte sperano possa essere superato al più presto.
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