«Quell’amore per la montagna che non è possibile combattere»

Dopo la tragedia in Nepal parla Rossella Pluda, vedova dell’alpinista Chiaf che morì sul Cervino
Beppe Chiaf durante una scalata © www.giornaledibrescia.it
Beppe Chiaf durante una scalata © www.giornaledibrescia.it
AA

La tragedia della montagna che porta a riavvolgere il nastro della vita. Fino al proprio personale dramma. «È stata una pugnalata al cuore, come ogni volta che un alpinista perde la vita» racconta Rossella Pluda parlando della morte di Simone La Terra, l’alpinista di Castiglione delle Stiviere deceduto durante una spedizione per raggiungere la vetta himalayana del Dhaulagiri, a quota 8.167 metri, in Nepal.

«Non lo conoscevo di persona, ma è stato come rivivere quella maledetta domenica» dice Rossella. Il riferimento è al 16 ottobre 2011 quando suo marito Giuseppe Chiaf, Beppe per tutti, muore tre giorni prima del 42esimo compleanno precipitando nel crepaccio terminale del versante settentrionale del Cervino. Sul suo blog si definiva: «Alpinista, amante delle grandi pareti, roccia, misto o ghiaccio che siano». «Non pensi mai che possa succedere, anche se sai bene che il rischio esiste. Pensare che tutto è avvenuto in un punto relativamente semplice fa ancora più male» racconta la donna spiegando quello che non si può spiegare.

«Scalare è una passione che non puoi fermare. Che non è giusto fermare. Quelle montagne erano la sua vita. Beppe aveva bisogno di quell’adrenalina, come tutti gli appassionati di alpinismo che vivono di sfide». Chi non passa metà della vita in parete non può capirlo e si chiederà sempre: «Ma chi ve lo fa fare?». «Per Beppe il Cervino era l’ultima tappa per completare un percorso. L’ho sentito la sera prima e mi aveva detto: "Non preoccuparti se domani non mi senti perché non so se ci sarà linea telefonica. Fino a lunedì mattina non preoccuparti" sono state le sue ultime parole. L’ho ascoltato».

Tutto crolla quando due carabinieri suonano alla porta di casa. «Era già accaduto una volta che mentre lui era via per arrampicare, le forze dell’ordine si fossero presentate sotto casa. Si era trattato di un errore. Ero convinta che anche quella sera si stessero sbagliando». Purtroppo non è andata così. «Mi hanno chiesto il nome, quello di mio marito e dentro di me ripetevo: "adesso mi dicono che hanno sbagliato casa". Tutto invece coincideva e mi sono trovata seduta sui gradini di casa davanti a due uomini in divisa che mi stavano dicendo che Beppe era morto».

Il rischio fa parte della vita di un alpinista, calcolato, ma non temuto. L’argomento poi è sempre tabù. «Non ha mai fatto un testamento e mai abbiamo affrontato il discorso. Certo - spiega la moglie di Beppe Chiaf - che quando una persona parte per una scalata pensi, anche se solo per un attimo, che può essere l’ultima volta che la vedi». 

La scena per lei, e come per tanti appassionati, si ripeteva praticamente ogni fine settimana. «Mi lasciava sempre un biglietto con le coordinate di dove andava. Ed è chiaro che ti rendi conto che non sta andando a fare una partita di calcetto». In quegli attimi gli incubi e i fantasmi della paura devono essere messi in un angolo. «Mi fidavo di lui e solo una volta gli ho telefonato dicendo che avevo delle sensazioni negative. Mi ascoltò e rinunciò alla spedizione. Mi rendevo seriamente conto del pericolo quando tornava e faceva vedere le fotografie delle sue imprese». Ma fermare l’amore per la parete era impossibile. «Non potevo farlo. Beppe ha sempre inseguito al sua passione, che era quella tramandatagli dal padre e dagli zii. Una famiglia di alpinisti conosce cosa sia l’estremo, ma non ci pensa».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia