Quanto vale dar valore al tempo
Per la prima volta oggi non avrò di che festeggiare. Papà se n’è andato poche settimane fa. Non che lo scaldassero le ricorrenze; mi avrebbe chiesto svagato: «Auguri per cosa? Ah, grazie», non si sarebbe particolarmente appassionato al regalo («non spendere tutti quei soldi») e mi avrebbe chiesto piuttosto di massaggiargli schiena e gambe doloranti.
Ora sarà affar mio fare i conti con l’assenza. L’assenza è roba brutta, l’assenza ti fa capire di quanta presenza non ti sei accorto. O non hai messo a frutto quando avresti potuto. Ti fa capire quanto poco sarebbe bastato per aver potuto. Invece c’era sempre qualcosa di più importante, di più urgente, di più concreto. Tanto lui era lì, non si sarebbe mosso.
Lui era presenza. Ma tutt’a un tratto arriva il giorno del giudizio, il primo San Giuseppe dalla parte opposta, quello dei rimpianti, del dolore, delle lacrime amare, inconsolabili. Quello in cui capisci la differenza tra Crònos, il tempo lineare, scandito dalle lancette dell’umana fretta, e Kàiros, il tempo alto dei sentimenti, dell’intensità emotiva, dell’attimo vissuto bene che vale più delle ore accumulate timbrando il cartellino del dovere. Quando non c’è più tempo, arriva il tempo in cui sai dare valore al tempo.
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