Quanta storia c’è dietro a un tananài

Fantastico il dialetto. Se lo frequenti con curiosità e rispetto è capace di spiazzarti. Di mostrarti che persino parole o modi di dire che tu hai sempre ritenuto autarchicamente indigeni possono raccontare - sotto una familiare, brescianissima coperta - complessi intrecci linguistici, secolari compresenze culturali, reciproche influenze tra comunità diverse. Quanti di noi hanno sentito i propri nonni utilizzare l’espressione tananài... Cosa significa? Da noi si dice «l’è un tananài» di una persona di poco conto, un innocuo sempliciotto. Oppure di un oggetto di scarso valore, una carabattola.
La stessa parola - stavolta col significato di chiasso, confusione - è presente in altri dialetti come il veneto, il trentino, il milanese. Sempre indicando persone che parlano tutte assieme, risuona invece con la dicitura badanài nel dialetto mantovano e addirittura nel romanesco popolare. Ma da dove arriva? Tananài è la storpiatura di badonài, a sua volta figlia dell’espressione ebraica «be Adonài» che significa «per il mio Signore», invocazione rituale spesso ripetuta nelle comunità ebraiche che per secoli sono state particolarmente nutrite ad esempio in città come Roma e Mantova.
Per chi non capiva la lingua ebraica - naturalmente - quelle invocazioni, quei suoni ripetuti, apparivano come un vociare indistinto, un confuso accavallarsi di richiami, proprio come nei mercati dove la gente «la fà ghèt», dove c’è... ghetto. Ma noi bresciani - noi che abbiamo imparato a dire tananài dai nostri nonni - sapevamo di considerare come indigena una parola che storicamente nasce dall’ebraico? Io no. Fantastico il dialetto.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato