Quando i bresciani salvarono 41 orfani ruandesi dall’eccidio
«Ho avuto paura per i nostri quarantuno piccoli orfani, non per me. Ho pregato tanto l’ufficiale belga: li salvi per favore, torni a prenderli al centro, altrimenti li uccideranno. Si è commosso e mi ha ascoltato». Cesarina Alghisi ricorda come ieri quelle drammatiche ore di 25 anni fa. Ha 87 anni, una mente lucidissima, un amore sconfinato per il Ruanda e il Burundi.
Per 40 anni, fino al 2009, quando una malattia l’ha costretta a fermarsi, ha passato lunghi periodi in Africa come volontaria. Nelle prime settimane di aprile del 1994 si trovava a Rilima, in Ruanda, 60 km dalla capitale Kigali, amministratrice del centro S. Maria aperto nel 1988. Ospedale e orfanotrofio sostenuti dalla Fondazione Tovini, da Medicus Mundi e dall’associazione Museke di Castenedolo, animata da Enrica Lombardi e dal fratello don Roberto. Nel teatro di una guerra civile che avrebbe fatto quasi un milione di morti in cento giorni, gli hutu a caccia - letteralmente - dei tutsi, fatti a pezzi con i machete.
L’orrore bussò anche alla porta del centro: ma il coraggio di operatori e volontari, l’aiuto dei militari belgi (il Ruanda era una loro ex colonia), l’intervento delle autorità italiane e un po’ di fortuna (o la provvidenza, fate voi) evitarono la tragedia. Si salvarono gli undici volontari e ospiti bresciani e i 41 orfani ruandesi, di età dai 4 mesi ai 4 anni. Tutto accadde fra l’11 e il 14 aprile.
«Un miracolo, la salvezza di tutti è stata un miracolo», ripete Cesarina nella sua casa di Concesio. In quei giorni a Rilima c’erano con lei le sorelle Maria Pia e Domenica con i mariti Angelo Cimaschi e Giulio Broglio, arrivati per passare insieme la Pasqua il 3 aprile. Dopo l’attentato del 6 aprile in cui perse la vita il presidente di etnia hutu, si scatenò il massacro. Miliziani armati si presentarono alla missione. «Fra i nostri 49 dipendenti locali - racconta Cesarina - alcuni erano tutsi. I soldati volevano ucciderli. Riuscimmo a resistere». La fuga era inevitabile. Dall’Italia garantirono la partenza dei bresciani, ma nello stesso tempo anche dei bambini. Così non fu. Al centro giunsero i soldati belgi per accompagnare all’aeroporto di Kigali, la capitale, soltanto gli europei. «Non volevo partire, senza i bambini non mi muovo, dicevo all’ufficiale che comandava. Mi promise che sarebbe tornato a prenderli».
Gli undici bresciani rientrarono in patria il 13 aprile. Ma il pensiero era agli orfani lasciati in Ruanda. Nel frattempo erano state mobilitate le autorità italiane. «Mino Martinazzoli - racconta Cesarina - sollecitò il ministro della Difesa, Beniamino Andreatta». Il primo gruppo di ventuno bambini arrivò in Italia, allo scalo di Ciampino, la sera del 14 aprile. Con loro c’era un sacerdote fintosi ferito, con la testa fasciata per nascondere agli hutu le fattezze da tutsi. Da Rilima all’aeroporto di Kigali il convoglio con gli orfani era stato scortato dai militari belgi. «Quel comandante, che avevo commosso, fu di parola», commenta Cesarina. I bambini, dall’aeroporto di Verona, furono accompagnati dalla Croce Rossa a Castenedolo, sede di Museke.
Si scatenò subito una gara di solidarierà. Gli orfani furono ospitati nell’ex asilo, in breve duecento volontari si fecero avanti per dare aiuto e assistenza, 24 ore su 24. Ma in Ruanda restavano gli altri venti bambini. L’attesa fu breve. Un velivolo dell’Aeronautica militare italiana con a bordo il secondo gruppo atterrò alla mezzanotte del 15 allo scalo di Ghedi. L’incubo era finito.
In seguito tutti i 41 orfani sono stati adottati, per lo più da famiglie bresciane. Alcuni si sono laureati, altri hanno una occupazione stabile, altri ancora stanno costruendo il loro futuro. «È stata una grande soddisfazione vedere crescere quei bambini, sapere che hanno trovato una sistemazione nella vita», riconosce Cesarina. Ogni anno, prima di Natale, nella sua casa riceve molti di loro. «Vengono a farmi gli auguri di compleanno il 20 dicembre e quelli di buone feste», racconta con un sorriso grande come la sua generosità. «Mi sento un po’ la loro mamma: a quelli meritevoli faccio i complimenti, gli altri li sgrido». Richiami bonari, ovviamente.
L’Africa è rimasta nel suo cuore. Vuole tornarci. Da Concesio segue la crescita del centro di Gitega, in Burundi, fondato dall’associazione Museke. Cesarina ci ha lavorato dal 1995 al 2009. Orfanotrofio, asilo, scuole, fattoria. «Vorrei andare a vedere come procede». Il suo sogno è la costruzione di una università, che completi l’offerta formativa per i giovani del luogo. «So che è molto difficile, ma non ci rinuncio». Quasi 88 anni, l’Africa e gli africani nel cuore: nell’animo la stessa volontà di quando contribuì a salvare i 41 bambini di Rilima.
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