«Piangevo in auto: in corsia e a casa non si poteva»

I turni infiniti, le preoccupazioni e i gesti che toccano il cuore nella riflessione di Sabrina Svanera, infermiera
Personale sanitario in corsia - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
Personale sanitario in corsia - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
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Prosegue la pubblicazione delle testimonianze di «Cuori in prima linea»l'iniziativa promossa da Giornale di Brescia e Intesa Sanpaolo: abbonamenti trimestrali gratuiti al GdB in versione Digital per il personale sanitario e la possibilità per gli operatori che hanno affrontato la pandemia in tutta la sua durezza - professionale e psicologica -, di raccontare le storie vissute durante la pandemia per farne un prezioso patrimonio di testimonianze da preservare.

Le storie possono essere inviate all'indirizzo email cuorinprimalinea@giornaledibrescia.it.

Tutto è iniziato con il primo caso. Fine febbraio. Signora ricoverata per infezione alle vie urinarie, però nel spostarla dalla barella del Pronto Soccorso al letto ci accorgiamo che ha l’ossigeno e respira male. Chiamiamo il nostro medico che, dopo una prima valutazione, dispone isolamento e tampone. Penso che il mio personale potrebbe essersi infettato. E io pure. Li ho aiutati a spostarla dalla barella e a posizionare e controllare l’erogatore dell’ossigeno che non era predisposto perché il motivo del ricovero era tutt'altro. Manteniamo la calma. Aspettiamo il referto del tampone.

Dall’anamnesi la signora, totalmente dipendente nei bisogni assistenziali, viveva ormai da parecchio tempo a letto accudita dalla badante e dal figlio. Arriva il referto: positivo. Allerto la medicina preventiva, seguiamo le loro indicazioni, facciamo il tampone, tutti negativi. La paura che ho letto negli occhi dei miei operatori non la scorderò mai. Le mie parole: «Ragazzi siamo in emergenza sanitaria, spostiamo tutti i pazienti dell’ala lunga e accogliamo i pazienti sospetti per Covid». Predisporre tutto, approvvigionarsi dei dpi, verificare che tutti applicassero le procedure di isolamento correttamente. Nella mia testa un martello: «Nessuno si deve ammalare».

Poi dopo qualche giorno, spostiamo tutti i pazienti dell’ala corta, velocemente, devono arrivare pazienti da Brescia e da Chiari. Li aiuto negli spostamenti e nell’accoglienza dei pazienti. «Poi ragazzi ora vado, sono quasi le 23 sono entrata alle 7». Arrivo a casa, mi ricordo che devo mangiare qualcosa, saluto i miei cari da lontano, a casa pratichiamo isolamento sociale, se li infetto non me lo perdonerei. Dormo due ore poi chiamo in reparto: «Tutto bene? Vi serve qualcosa? Devo venire?». Supporto da lontano almeno moralmente e alle 7 sono lì. Poi non ricordo neppure i giorni che trascorrono, le corse, osservare e decidere come organizzare al meglio tutto per essere d’aiuto il più possibile. Le bombole dell’ossigeno da 3 sono passate a quaranta, nessuno deve rimanere senza. Sveglie, ci servono sveglie da caricare fuori dalla stanze per ricordare di sostituirle nei tempi giusti. Per alcuni pazienti una bombola durava tre quarti d’ora.

Muore il primo paziente e arrivano le nuove indicazioni. Fare 21 minuti di ECG continuo e chiudere il paziente nel sacco. Il dolore provato per non poterlo far salutare dai parenti e le lacrime per non essere riusciti ad aiutarlo. Tanti morti, tanti pazienti gravi, corse per le Cpap, telefonate infinite per trasferire i pazienti in rianimazione. Osservare che tutti applichino correttamente l’isolamento e utilizzino dpi. Supportare tutti in modo che lo sconforto non prevalga. Piangere durante il tragitto in auto perché in reparto non si può: devo sollevare il morale a tutto il personale, devo aiutarli a non arrendersi, a casa non si può, mio marito malato, mio cognato morto, due zii morti, anche a casa devo mantenere la calma e supportare i miei figli spaventati per mio marito che potrebbe aggravarsi.

Per fortuna la fonte di contagio non sono io, sierologico e tampone negativi. Il senso di colpa però non si placa. Avrò fatto abbastanza? Le tante ore trascorse in ospedale sono state sufficienti ad aiutare il mio personale? A casa, li ho lasciati soli, ma sapevano di potermi chiamare se le cose si aggravavano, però li ho lasciati soli. In tutto questo caos, l’unico conforto fisso all’orizzonte e stata la fede in Dio e le messe di Papa Francesco, che ascoltavo dal tablet, in replica, durante le notti insonni prima di chiamare in reparto per sapere se stava procedendo tutto bene. Se e quando tutto questo si ripresenterà, non so se saremo più preparati, sicuramente più stanchi e moralmente provati.

Permettetemi però di ringraziare infinitamente, tutto il personale perché ciascuno con le proprie capacità si è messo a disposizione e ha fatto del proprio meglio per assistere i pazienti in tutte le loro necessità. Non sempre il nostro impegno ha portato buoni frutti, alcuni pazienti non sono sopravvissuti, ma questo non è certo dipeso da noi. Tra coloro che voglio ringraziare includo anche tutto il personale che dalle altre unità o servizi ci ha aiutato. Un grazie infinito va anche a tutti coloro che ci hanno sostenuto con gesti, parole, doni culinari, calze, creme, dpi, attrezzature sanitarie e tv in ogni stanza.

Sabrina Svanera - infermiera coordinatrice della Medicina di Gardone Valtrompia

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