Padre Toffari si dimette da direttore Centro migranti

Rimane parroco alla Stocchetta. Al suo posto lo scalabriniano padre Gabriele Bentoglio
CENTRO MIGRANTI, PADRE TOFFARI LASCIA
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Dopo oltre vent’anni al timone dell’Ufficio Migranti della Curia vescovile, padre Mario Toffari cede il testimone ad un altro Scalabriniano, padre Gabriele Bentoglio, che padre Mario presenterà la domenica delle Palme.

L’annuncio ai fedeli della parrocchia della Stocchetta, della quale continuerà a rimanere parroco, conservando anche il servizio di cappellano per gli immigrati.
«Ho accettato molto volentieri di rimanere Parroco e di conservare il servizio di cappellano per gli immigrati, perché la nostra è parrocchia anche dei migranti - si legge nella lettera che padre Mario ha consegnato domenica ai parrocchiani -. Ho ringraziato, e lo faccio ancora di cuore, i miei Superiori diocesani e quelli religiosi, per aver provveduto, a mio parere in modo egregio, alla pastorale dei migranti, designando un missionario scalabriniano esperto in migrazioni, oltre che in Sacra Scrittura. Come pure sono loro grato per avermi lasciato ancora qualche tempo con voi: naturalmente a loro ho già dato, liberamente e con gioia, la mia disponibilità ad abbandonare il servizio di Parroco, quando lo riterranno opportuno, sia per bisogni della Congregazione Scalabriniana, sia per esigenze di servizio parrocchiale, che non fossi più in grado di garantire».

Padre Mario Toffari è nato a Brescia 75 anni fa in via delle Grazie ed è sempre vissuto in via Pace. Dunque, vent’anni di missione in una realtà, quale quella bresciana, che è diventata forte terra di immigrazione. «Ho visto il mondo cambiare, ed i bresciani sono stati coinvolti da vicino in questo cambiamento» racconta, ricordando la lunga trattativa nell’autunno del 2010 per far scendere da una gru in piazzale Battisti alcuni migranti che protestavano per ottenere il permesso di soggiorno.
Continua: «Ora assistiamo alla costruzione di muri per respingere chi si mette in cammino. Come gli italiani che andavano al Nord. Ricordo, anche, che chi lavorava in Svizzera doveva aspettare anche dieci-dodici anni prima di poter ricongiungersi con la famiglia».
 

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