Nel cuore di San Polo la storia di un paese

Migrazione dalla città e dai Comuni. La comunità di strada e del centro storico. Tra cave, industrie e metrò
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San Polo non è le Torri di San Polo. San Polo è prima, un secolo di animazione civile ancora percepibile sulla comunale verso Castenedolo, un paese di negozi, officine, bar e pensioni che camminano sulle gambe di pensionati in gamba. Uno di loro ci impresta la biro di buonora e non la vorrebbe indietro per pudore e ospitalità.

Si chiama Giuseppe Branchi, abita nell'oriente di San Polo, non lontano, di 250 case Marcolini, originario dell'Alta Valle Camonica, parente del sindacalista Carlo, che se ne andò mentre cercava una cinciallegra.
Sono venuti a San Polo da Brescia, dalla profondità delle valli e delle Basse, quando l'industrializzazione, nel primo Dopoguerra fu fisicamente rappresentata dalla Lonati e dai cotonifici, dalle cave e ora dal metrò passante nel cuore di San Polino, secondo un taglio ingiusto e orrendo.
 

«Nel 1971 ho comprato una casa Marcolini - racconta Giuseppe Branchi - costava 4 milioni 850mila e adesso te ne offrono 150mila. Qualcuno domanda 250, 300mila, ma sta sulla luna».
 

San Polo sono circa 21mila abitanti, un ottavo della grande Brescia, con sussulti di antichità memoriale di padre in figlio. Il padre Mario Cremaschini ha 81 anni, i figli quaranta-cinquantenni, Angela e Franco, posseggono la storia della loro casa, lì dal 1911, il compleanno di un secolo, fissi con il commercio di polli, quindi frutta e verdura dal 1948. Qui davanti passava il tram, la forneria c'era, l'edicola è venuta più avanti, di là, il liberty dei Bonetti resisteva agli inverni del 1929.

«I miei nonni - dice Angelo Cremaschini - sono arrivati da piazza Tebaldo Brusato».
San Polo rimane l'epopea di un'economia mista. All'inizio furono le cave, l'Alfa Acciai, il cotonificio Schiannini, 60 dipendenti negli anni Cinquanta, dalla campagna, alla fine dell'imponibile, parecchia gente. Fu l'esodo accolto da Marcolini nelle case del Signore, con orto e crocefisso come sull'aia della campagna da cui provenivano.

Loro, i migranti delle Basse dicevano agli amici «Ndo a stà 'n cità» e invece venivano ad abitare in un paesotto-quartiere che la geografia definiva, propriamente e impropriamente, città.
Gente di cava e di fabbrica, di bottega e di officina. Gente bresciana pienamente, per operosità e ceppo misto, adattabile unitariamente al posto nuovo: resteremo qui e ci scambieremo le storie, i vivi e i morti, e il futuro dei figli. Questa è stata la prima biblica e silenziosa integrazione del Dopoguerra durata per oltre 20 anni e assorbita con dignità.

Divennero in breve tempo tutti e parimenti cittadini di Brescia e non dimenticarono di venire da Castenedolo, da Edolo, da Prevalle...
Incontriamo queste origini nel borgo sulla strada e nel borgo più antico a occidente. Non sosteniamo che tutti conoscono tutti, ma, come nei paesi profondi, ognuno sa chi è il vicino e non perde il passo del saluto. «Un tempo ci fermavamo nelle piazzette - dice Ivano Gussago - discutevamo e sapevamo ogni cosa del paese. Adesso anche San Polo storico è cambiato, ma non ci perdiamo di vista, sappiamo chi siamo». Di notte si conoscono i passi di chi rientra. «Mio papà, Angelo Gussago veniva da Borgosatollo, faceva lo strassèr - ricordate la cantilena, «straseeeer, pèl de cunic me endeeee... sono strassèr e vendo pelle di coniglio...».
 

«Mio papà prima vendeva gallette poi è passato alle pelli di coniglio e ha fatto una piccola fortuna. Questa casa, vedete, l'ha comperata vendendo pelli di coniglio. Una signora da Verona veniva a comperare pelli di coniglio bianche per fare una pelliccia. Sul solaio ci sono ancora i chiodi dove venivano appese le pelli per la selezione. Io ho fatto 37 anni alla San Giacomo, villaggio Ferrari. A San Polo sono legato e ci vivo bene».
 

Tonino Zana

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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