Morta bruciata, il marito: «Mina si diede fuoco da sola»

«Si è data fuoco da sola, poi mi ha abbracciato e stretto forte. Voleva che morissi con lei. E anche quando sono riuscito a liberarmi dalla sua presa ha cercato, da terra, di afferrarmi per una caviglia e di bloccarmi».
A parlare è Abderrahim Senbel, il 55enne di origini marocchine a processo con l’accusa di omicidio volontario della moglie Mina Safine, la 45enne badante sua connazionale morta il 27 settembre di due anni fa in seguito alle vaste ustioni riportate sul 90% del corpo una settimana prima, a casa, al sesto piano di una dei condomini di via Tiboni, ad Urago Mella in città.
Detenuto da allora con l’accusa di aver versato del liquido infiammabile sul corpo della moglie e di averle appiccato le fiamme con un accendino l’uomo ieri è tornato a difendersi. L’aveva già fatto nell’immediatezza dei fatti, ma anche nove mesi dopo, dal carcere, sostenendo un lungo interrogatorio con il pubblico ministero Caty Bressanelli. E l’ha rifatto anche ieri, davanti alla Corte d’assise presieduta da Roberto Spanò. «Ero mezzo addormentato sul divano - ha detto Senbel tornando, grazie anche alla traduzione di una interprete, alla sera di quel 20 settembre - quando ad un certo punto ho sentito il rumore di un liquido rovesciarsi. E una bottiglia di plastica cadere a terra. Mi sono alzato e ho visto una fiamma uscire dalla mano sinistra, che mia moglie teneva sopra la testa. A quel punto il fuoco le è sceso fino ai piedi, davanti e dietro».Chiesto di riconoscere l’accendino che la moglie a suo dire avrebbe utilizzato contro di sé, Senbel per la prima volta ieri ha escluso si trattasse di quello finito nel fascicolo delle indagini e sottoposto agli accertamenti irripetibili del Ris, ma di un altro sfuggito alle verifiche. In particolare ha escluso si trattasse di un accendigas a becco lungo, trovato sulla lavatrice, dove aveva detto che la moglie l’aveva posato dopo essersi data fuoco; ma che si trattava di uno di quelli piccoli, trovato da tutt’altra parte della casa. Differenze all’apparenza sottili che, a giudicare dall’attenzione dedicata loro dalla Corte d’assise e dal pubblico ministero, sottili potrebbero non essere.
Nel corso del suo esame il 55enne ha introdotto altri elementi nuovi nel suo racconto. Ha riferito di essersi preoccupato per la presenza delle fiamme vicino alla tubatura del gas e di essere intervenuto con una coperta nel tentativo di spegnere queste prima di aiutare la moglie. «Quando mi sono avvicinato a lei - ha spiegato poi - Mina mi ha abbracciato e stretto a lei. Siamo caduti a terra e siamo stati lì, tra le fiamme, per dieci minuti. Fino a quando non sono riuscito a liberarmi».
Oltre ad alcune incongruenze e contraddizioni nei suoi racconti, contro l’imputato ci sarebbero poi le ultime parole di sua moglie e la consulenza della dottoressa Camilla Tettamanti. Al Nue, quella sera, urlando tutta la sua disperazione la donna chiedeva aiuto indicando nel marito la causa del suo dolore. «Mio marito mi ha bruciata- gridava la donna al telefono - Per favore, chiamami l’ambulanza per favore. Io sono bruciata per favore». A dare ulteriore peso alle accuse lanciate dalla vittima, le conclusioni del consulente medico legale del pm.
La dottoressa Camilla Tettamanti, nel corso dell’udienza del 27 ottobre dello scorso anno, ha spiegato che «viste le profonde ustioni sulla vittima», Mina Safine fosse in piedi al momento del fatto e che «non possa essersi data fuoco da sola». Ad escluderlo argomentò la consulente «la circostanza che le ascelle non fossero state intaccate dalle fiamme. Segno evidente che la donna non avesse le braccia alzate e che pertanto non si fosse appiccata le fiamme da sola» partendo dalla testa come, suo marito, ha mimato a più riprese. Anche ieri.
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