Mons. Monari: «Il cruccio? Donne poco valorizzate nella Chiesa»
Il 28 marzo mons. Luciano Monari compirà 75 anni, quindi, nel pieno rispetto della norma introdotta da Paolo VI nel 1966, presenterà a papa Francesco le sue dimissioni da vescovo di Brescia, è arrivato nel 2007. Dieci anni quindi alla guida di una tra le Diocesi più importanti a livello italiano, una terra dove il cattolicesimo è tra gli elementi caratterizzanti, anche del tessuto sociale, ma dove comunque la Chiesa si sta sempre più riducendo a piccolo gregge. Luciano Monari, originario di Sassuolo, provincia di Modena, fine intellettuale, si definisce un «manovale della Bibbia». È arrivato in un tempo di grandi cambiamenti: non si è certo fatto spaventare, anzi.
Eccellenza, qual è il bilancio di questi anni?
«Mi sono confrontato con una realtà complessa, spesso mi sono dovuto mettere in gioco, ma devo ammettere che ogni volta è stata occasione per arricchirmi: di tutto questo devo sicuramente ringraziare Brescia, e i bresciani.
Anche i bresciani devono certo ringraziarla per il suo impegno, pure su temi molto delicati come l’accoglienza dei profughi. Partendo proprio da qui, lei è sempre molto in sintonia con papa Francesco, si sente più libero di esprimere il suo pensiero con Bergoglio alla guida della Chiesa?
«Mi sento certo molto in sintonia con papa Francesco, con il suo atteggiamento, diciamo così, sciolto nell’affrontare i problemi, prima la Chiesa appariva un po’ ingessata. Il suo è uno stile che fa bene, ci fa sentire più gioiosi, non solo: è uno stimolo anche per tutti noi uomini di Chiesa, perché ormai è anche la gente a chiederci di essere più gioiosi nell’annunciare il Vangelo».
Sempre fronte profughi, a oggi sono 29 le Parrocchie che hanno risposto positivamente al suo appello per l’accoglienza, le sembra una risposta adeguata?
In verità ne desidero di più, servono maggiori disponibilità: nel Bresciano qualche posto in più può esserci, deve esserci. Bisogna però precisare che anche quello delle Parrocchie è un ruolo, diciamo così, surrogato, l’accoglienza dei profughi è comunque un compito dello Stato. Personalmente trovo poi che serva un modo nuovo per affrontare la questione, che spesso viene strumentalmente ingigantita. Serve un progetto di accompagnamento, non di sola ospitalità.
Tra le sfide di questo decennio, non si possono dimenticare le unità pastorali. Possiamo parlare di obiettivo raggiunto?
Quelle che abbiamo istituito funzionano bene, posso citare per esempio Lumezzane. La strada da fare è certo ancora lunga, ma Brescia ha la fortuna di avere tutto il tempo per metabolizzare il percorso, non siamo in emergenza per mancanza di sacerdoti. Nonostante tutte le difficoltà, ci sono ancora preti a sufficienza per gestire le nostre parrocchie, certo non potrà essere così per sempre, ma per i prossimi anni possiamo stare tranquilli. Su questo fronte sono molto soddisfatto di essere riuscito a fare un piccolo sinodo diocesano.
Brescia sul fronte degli oratori vanta una storia che ha pochi eguali in Italia. Ma è innegabile che avvicinare i giovani sia sempre più difficile. Secondo lei cosa si deve fare?
Nel Bresciano gli oratori hanno strutture eccezionali, neppure Milano probabilmente è al nostro livello. Detto questo, dobbiamo purtroppo constatare che i giovani non restano in oratorio, non lo sentono come luogo loro, non sentono la Chiesa come la loro casa. Il loro stile di vita quotidiano è troppo distante. La nostra sfida è parlare al vissuto di oggi, cosa tutt’altro che facile se di fronte a noi abbiamo la società liquida che ci sfugge dalle mani come un’anguilla.
I giovani vivono la fede come qualcosa del passato, come appassionarli?
L’ateismo dei giovani non è teorico, non parte da una riflessione ma dalla prassi, i ragazzi semplicemente hanno estromesso Dio dalla loro vita perché hanno deciso che non ha nulla a che fare con il loro quotidiano. Non gli hanno mai lasciato spazio non ritenendolo degno di attenzione, così facendo lo hanno cancellato del tutto dalla loro vita.
Quando è arrivato a Brescia ha impresso una linea ben precisa nella gestione del seminario, alcuni ragazzi furono rimandati a casa, decisioni che hanno creato qualche malcontento. Oggi come va?
Per alcuni sacerdoti, nella gestione (soprattutto iniziale) del seminario, abbiamo applicato un discernimento troppo rigido, oggi posso però dire che quella tensione si è certamente addolcita. Sul fronte della formazione dei futuri preti bisogna poi dire che i ragazzi del nostro tempo sono certamente fragili. Per diventare sacerdoti si deve essere umanamente equilibrati e innamorati di Gesù.
Quando si tirano le somme di quanto si è fatto non manca mai il dispiacere per qualche progetto non realizzato, qual è il suo cruccio?
«Avrei dovuto lavorare di più sul tema delle donne nella Chiesa, sul loro ruolo nella Chiesa. Non sono riuscito a fare quello che avrei voluto, quello che avrei dovuto, di tutto questo sono particolarmente dispiaciuto».
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