«Mi chiamava amore»: il podcast sulla violenza psicologica, raccontata dalle sopravvissute
Come va? Dove sei, con chi sei? Ma sei con il tuo collega? Cosa indossi? Mandami una foto. Che è quella gonna?
Nelle chat con il proprio partner può succedere di ricevere messaggi con queste frasi apparentemente innocue. In realtà, se perpetrate nel tempo e inviate in modo insistente, compulsivo, non lo sono affatto. Sono anzi il segnale di una forma di violenza di cui si parla ancora poco, fatta di controllo, ossessioni, vessazioni, che in tanti casi sono l’anticamera per violenze anche fisiche: quella psicologica.
Nelle ultime settimane si è tornati a parlare di abuso psicologico con il caso delle denunce di maltrattamenti subiti dalle atlete che sta travolgendo il mondo della ginnastica ritmica, anche a Brescia. Si tratta però di un fenomeno molto più diffuso, in diversi ambiti, dal lavoro alle relazioni affettive. È un tipo di violenza però più subdola, perché non si vede, e spesso resta sommersa anche perché in alcuni luoghi come le piccole comunità può essere più difficile parlarne che altrove.
Per questa ragione abbiamo deciso di farlo oggi, per la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, con un podcast intitolato «Mi chiamava amore»: storie di donne che hanno subito diverse forme di violenza, a partire da quella psicologica, sono sopravvissute e hanno deciso di raccontarle con la loro voce per spiegare cosa amore non è, nella speranza spingere altre donne a salvarsi. Lo trovate in questo articolo, ma anche su Spreaker e su Spotify (l'ascolto è gratuito, basta avere un account, anche questo gratuito).
Perché un podcast
La voce è uno dei mezzi più potenti per comunicare qualcosa. Ascoltare una storia non è come leggerla, soprattutto se la raccontano i suoi protagonisti. Usciamo con questo podcast il 25 novembre perché la ricorrenza ci permette di catalizzare più attenzione su questo tema, che però non va ridotto alla giornata e anzi necessita di essere trattato con costanza e diverse angolazioni in ogni periodo dell'anno.
Perché parliamo di una «manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione» e quindi di un fenomeno strutturale, perché basato sul genere, che è sempre stato anche «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini». Queste sono definizioni prese dalla Convenzione di Istanbul del 2011, il trattato internazionale vincolante di più ampia portata per affrontare questa grave forma di violazione dei diritti umani sottoscritto da 47 stati membri del Consiglio d’Europa tra i quali l’Italia.
Le tre storie
Si tratta di tre donne di età diverse, che non si conoscono fra loro e vivono in provincia di Brescia. Due hanno deciso di presentarsi con il loro nome vero, la terza no, ma nel podcast non vengono dati altri dettagli per motivi di tutela.
L’inizio delle tre storie si somiglia. Ci sono le stesse dinamiche di violenza psicologica, per le quali gli abusanti impongono sulle tre donne un controllo sempre più restrittivo, dal vestiario agli spostamenti. A Moira viene cancellato l’archivio del suo pc «perché non è sicuro». Pinky riceve chiamate continue perché suo marito vuole sapere «se è davvero al lavoro o da un’altra parte». Marta ha messo in chiaro le cose da subito, non intende avere un coinvolgimento emotivo nel rapporto, ma lui insiste, nonostante conviva e abbia un figlio, e quando lei gli ripete i suoi no «posta immagini nello status di Whatsapp in cui un uomo si suicida per un rifiuto».
Per Moira e Pinky questa è solo la prima fase di una serie di violenze che si intensificano nel tempo, arrivando all’abuso sessuale e al tentato omicidio. Denunceranno i carnefici e per entrambe serviranno anni per rimettersi in piedi dal trauma. Marta invece riesce a chiudere la relazione molto prima, ma non denuncerà mai nonostante la convocazione dei carabinieri. Le ragioni della sua scelta sono complesse, ma non è la sola: secondo l’ultimo rapporto della rete nazionale Di.Re., l’associazione che riunisce 108 centri antiviolenza in tutta Italia e che nel 2021 ha contato 20.711 donne accolte, solo il 28% delle vittime di violenza intraprende un percorso giudiziario.
Cos’è la violenza psicologica
Definire la violenza psicologica non è semplice. L’Osservatorio sulla violenza spiega che per maltrattamento psicologico «si intende quella serie di comportamenti che mira a svalutare una persona ponendola in una condizione di subordinazione e danneggiandone il benessere psicologico ed emotivo». Questa condizione pone le basi che permettono al maltrattante di isolare la vittima, destabilizzarla e instillarle una dis-percezione della realtà tale per cui non è più in grado di riconoscere gli abusi come tali né il proprio valore. «Mi ha ridotta a un automa» racconta Moira nel podcast «Mi chiamava amore». L’aggressore la attira a sé proponendosi come una persona protettiva e accudente, le fa credere di essere libera e intanto le sottrae progressivamente le sue libertà.
Nel podcast, spiega tutti questi meccanismi la psicologa Alessandra Viviani, che opera nella Casa delle Donne di Brescia in via San Faustino. Viviani inoltre smantella il pregiudizio secondo cui il problema sarebbe circoscritto a pochi ambienti degradati e sia una conseguenza di emergenze periodiche: «La violenza psicologica trova il suo terreno negli stereotipi di genere - dice la psicologa - e può avvenire in qualsiasi contesto. Non c’è un prototipo di donna che subisce violenza: siamo tutte potenzialmente a rischio».
Come se ne esce?
In estrema sintesi, il primo passo è parlarne e riuscire a rendersi conto di avere bisogno d’aiuto. Il secondo è rivolgersi a un centro antiviolenza o a un punto di riferimento fidato per iniziare la psicoterapia. Il terzo, ugualmente difficile, è denunciare. «Per questa ragione la sfera giudiziaria e quella emotiva hanno bisogno di andare di pari passo» spiega l’avvocata Beatrice Ferrari, che assiste le donne vittime di violenza nei processi al tribunale di Brescia. A lei abbiamo chiesto di spiegarci come funziona il percorso giudiziario e cosa permette di individuare un caso di violenza psicologica a livello giuridico.
Il messaggio più importante però arriva da Moira, Marta e Pinky: «Ce la si può fare, si può sopravvivere, e tutto questo deve cambiare». A loro il mio grazie, perché ripercorrere le loro storie davanti a un microfono è stato doloroso, ma non si sono tirate indietro. Neanche questa volta.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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