«Mi avevano promesso la testa di Manolo, voglio solo il suo Dna»

Parla Guido Viscardi, l’unico sopravvissuto alla strage: «Chiedo la certezza dell’identità dell’uomo sepolto in Serbia»
Il superstite: fu Guido Viscardi a trovare i corpi senza vita dei suoi famigliari la mattina del 16 agosto del 1990 - © www.giornaledibrescia.it
Il superstite: fu Guido Viscardi a trovare i corpi senza vita dei suoi famigliari la mattina del 16 agosto del 1990 - © www.giornaledibrescia.it
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La villetta dei Viscardi è immutabile, contiene dolore e memoria, contiene la vita che si fa, come adesso, in questa mattina piovosa, minuto dopo minuto per trent’anni. Guido Viscardi, vittorioso su un dolore immane trasformato in una contestazione a voce alta, ragiona tra i capannoni dei suoi 70mila polli e la collinetta dedicata al ricordo e al martirio della famiglia. La Madonna in gesso, alta come un bambino di 10 anni, è stata orientata alla grande croce fabbricata con il pavimento in legno insanguinato su cui morirono la madre Agnese, il padre Giuliano, la sorella Maria Francesca e il fratello Luciano.

Morirono per sterminio, come in una Auschwitz in tempo di pace. Intorno alla Madonna e al Crocefisso, l’impresa famigliare di quattro macedoni, i Mustafosiki, stimati a Pontevico da 35 anni, mette in sicurezza il Crocefisso. «Desidero che il legno non venga eroso dai nostri inverni, desidero consegnarlo ai figli e ai figli dei figli, nessuno può dimenticare». Guido Viscardi, sopravvissuto alla strage per la sola ragione di abitare 200 metri in su, verso Pontevico, all’opposto dell’autostrada da cui era venuto Manolo, il diavolo, con i suoi soci dell’inferno, dirige i lavori, si sposta dal capannone alla collinetta, risaluta le figlie, Giulia di 20 anni, Samuela di 30 - «la tenevo in braccio quella mattina in cui ero venuto a prendere un arnese qui» -, Sara di 29; mentre la moglie Rina e l’ultima figlia Francesca di 27 anni sono in casa a sbrigare le tante faccende di una villetta sopra la testa di mille lavori.

Come sta, Guido? Dopo 30 anni cosa è cambiato dentro e fuori di lei?
«Sto come chi ha fatto un infartino silente ogni anno da allora. Un infartone nel 2010. Il cardiologo me l’ha spiegata così. La salute è questa. Per il resto, nulla è cambiato. Sono arrabbiato come allora. La giustizia non fa il suo dovere. La giustizia dovrebbe ordinare il dna di quell’assassino. Sta sotto un mucchio di terra, dicono, ma nessuno conosce se sia lui o un altro. Chiedo, di nuovo, il dna, oppure quello di suo fratello che è nel carcere di Fossombrone. Cosa chiedo, la luna? Sarei più tranquillo per tutti i miei. Non dimenticate cosa disse quell’assassino al processo vicino a Belgrado: "Se mi succede qualcosa, dite a quello con il pizzetto che torno a trovarlo". Quello col pizzetto sono io. Non ho paura di nessuno, ma i miei cari debbono stare al sicuro. Non cerco vendetta, cerco giustizia, se avessi voluto vendicarmi avrei detto di sì a quel tizio che mi offriva la testa di Manolo in una cesta».

Chi era, come le si presentò questa specie di vendicatore?
«Mi chiamò al telefono, credo nel dicembre di quell’anno. Venne a trovarmi qui, alla villetta, io uscii, intorno a mezzanotte e girammo a piedi nel buio verso Torchiera. Mi chiese 50 milioni di vecchie lire in cambio della vita di Manolo, una settimana di tempo, soldi da consegnare dopo. Gli dissi subito che non stava né in cielo né in terra e non lo rividi e non lo risentii mai più. Non saprei neppure riconoscerlo se lo incontrassi oggi».

Poco tempo fa lei è andato a Bruxelles per chiedere giustizia?
«Mi hanno accompagnato due vostri giornalisti, Gabriele Strada e Salvatore Montillo. A Bruxelles una funzionaria mi ha ricevuto. Ha promesso interessamenti, più sentito nessuno e quando ho cercato di chiamare, nessuno ha risposto».

Cosa chiederebbe a un magistrato italiano e a un magistrato serbo?
«Chiederei di andare sulla cosiddetta tomba dell’assassino, di diseppellirlo, ha una fisionomia subito riconoscibile oppure il dna. Ripeto, non cerco vendetta, non cerco disordine, cerco una certezza».

La madre, il padre, i fratelli, come le tornano oggi alla mente?
«Certe volte li sogno. Compaiono tutti assieme. Non dicono nulla. Non sono tristi, non sono ridenti. Sono fermi. Una notte, ho sognato mio fratello Luciano che correva dentro e fuori il capannone che si era incendiato. Ho un senso di colpa, non l’ho mai detto: ecco, sono convinto che mia madre, quella notte mi abbia chiamato al telefono, lei fu trovata quasi con la cornetta in mano. Lei mi avrà chiamato di sicuro. Solo che io, quella notte, avevo chiuso la stanza dalla camera da letto e lì c’era il telefono, non ho potuto sentirlo».

Il lavoro come va?
«Non posso lamentarmi. Mi alzo al mattino alle 6 e termino alle 10 o alle 11 di sera, si lavora il sabato e la domenica, a Natale e a Pasqua».

Guido Viscardi sale la collinetta, insieme ci inginocchiamo sulle pietre di marmo e partono naturali un’Ave Maria e un Eterno Riposo, veniamo tutti dall’oratorio e le preghiere sono cresciute con il Covid. Pensate poi, ai piedi di questo martirio, la preghiera parla da sè. «Domenica 16 agosto vi aspetto, diciamo la Messa di ogni anno. Venite. Ci tengo».

 

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