Mangiare poco, mangiare troppo, non mangiare: dentro l'ossessione
Mangiare poco, mangiare troppo, non mangiare per niente. Essere ossessionati dal peso e dall’immagine corporea. Sono manifestazioni, tragiche ma solo superficiali, di sofferenze che vanno al di là del cibo e del corpo. Si chiamano disturbi del comportamento alimentare (dca) e oggi, 15 marzo, è la giornata nazionale per ricordare che esistono e vanno curati.
Il rapporto
Il rapporto Ma.nu.al commissionato dall’Istituto superiore di sanità, che fotografa la situazione italiana fino al 31 dicembre 2021, registra 91 centri pubblici specializzati nei dca, con 8mila pazienti presi in cura, a fronte di circa 2,9 milioni di italiani affetti da questa malattia. A soffrirne sono prevalentemente ragazze, donne e bambine, la fascia d’età più colpita è fra i 13 e i 25 anni, anche se l'età di insorgenza può arrivare anche a 9-12 anni. Dall’inizio della pandemia i casi sono cresciuti del 30-40%, ma molte delle realtà specializzate nella cura di questi disturbi sono rimaste chiuse, per questo motivo altre strutture hanno avuto un surplus di richieste.
I centri specializzati: il Cdca di Gussago
Tra i 91 centri menzionati, si trovano anche i due bresciani: il Cdca di Gussago, alla Fondazione Richiedei, e la Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, entrambi afferenti all’Asst Spedali Civili. Quello di Gussago, che accoglie pazienti dai 16 anni in su, è un reparto riabilitativo specialistico con degenza residenziale, day hospital e ambulatorio. Il direttore, Mauro Consolati, conferma l’impatto negativo della pandemia anche sulla struttura bresciana: «Abbiamo raggiunto il 98,5% di saturazione dei posti letto disponibili, generando liste d’attesa in media di quattro mesi, che diventano sei se si aggiungono i due mesi necessari per una prima visita».I costi e la necessità di fare rete
Rimanere nell’ambito pubblico richiede tempo, ma spostarsi verso strutture private comporta una spesa economica importante, che solo in parte il Servizio sanitario nazionale riesce a coprire: già nel 2011 il Giornale Italiano di Psicopatologia stimava che il costo di un ricovero fosse di 9.441 euro. Dieci anni dopo poco è cambiato, anzi: le rette giornaliere per paziente costano alle Regioni dai 120 ai 170 euro nelle cliniche private convenzionate, dove i ricoveri durano circa due-tre mesi. Segnali positivi arrivano però dall’ultima Legge di Bilancio, in cui è stato istituito un fondo di 25 milioni per il sostegno alla cura dei dca. Il futuro. L’esigenza più sentita è quella di fare rete: creare un tessuto capillare di ambulatori dotati di equipe multidisciplinari (vale a dire composte da psichiatri, psicologi, nutrizionisti e internisti), tali da garantire continuità delle cure anche prima e dopo le fasi acute, prevenendo così l’aggravarsi della malattia e le ricadute.
Una malattia senza più genere
Da non sottovalutare, infine, l’aumento dei dca tra bambini e ragazzi. Nel Bresciano, in linea con i dati nazionali, riguardano il 5-6% dei malati, che portano il peso di un doppio stigma sociale: quello della «malattia-capriccio», come avviene anche per donne e ragazze, e quello dell’essere una patologia storicamente legata al genere femminile. Di qui la difficoltà doppia nel chiedere aiuto.
@Buongiorno Brescia
La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.
La storia di Ester
«Ho iniziato ad avere un rapporto malsano con il cibo durante l’ultimo anno del liceo. Mi sentivo inadeguata: allora abitavo in un paesino di montagna, ma andavo a scuola a Salò e spesso venivo guardata dall’alto in basso, come "quella che viene dalle montagne"…». Inizia così il racconto di Ester, una giovane donna bresciana che in passato ha sofferto di anoressia. «Da me stessa pretendevo sempre il massimo, soprattutto nei voti, e quando non riuscivo a ottenere quello che mi ero prefissata, mi punivo digiunando. Cercavo di mangiare il meno possibile, evitando qualsiasi momento di convivialità, e dovevo muovermi in continuazione per bruciare calorie. Mi ero isolata da tutti gli amici ed ero completamente apatica, ogni azione mi stancava moltissimo».
Preso il diploma, le sue condizioni di salute impongono a Ester un anno di stop: «Sono stata ricoverata al centro dca di Gussago e sono rimasta lì sei mesi. È stato un percorso doloroso e impegnativo, ma mi ha salvato la vita». Anche se le difficoltà non sono mancate nemmeno dopo. Ci sono voluti anni perché Ester riacquisisse un rapporto libero con il cibo, ma oggi, mentre racconta, dice: «Mi sembra di parlare di un’altra persona. Non mi riconosco più in quella ragazza fragilissima, ma dico a chi ora è come lei di guardare al futuro, di non pensare che il presente sia eterno. Ho la fortuna di avere due bellissimi bambini, che con mio marito e il mio lavoro mi fanno sentire una donna completa, ma se avessi continuato a percorrere la strada dell’autodistruzione, se non mi fossi fidata dei medici e di chi mi voleva bene, non avrei tutto questo. Il tempo non torna indietro e non tutto è riparabile: ciò che distruggi non è scontato ritorni».
«Una realtà diffficile da accettare»: le parole di una mamma
Non è stato facile rendermi conto, e tanto meno accettare, che mia figlia, a soli 13 anni, soffriva di anoressia». Stella (nome di fantasia) è una mamma bresciana e nella primavera del 2020 si trova di fronte a un rifiuto categorico: Carlotta non vuole più mangiare. «All’inizio diceva che aveva male allo stomaco, pensavo c’entrasse la reclusione e mio marito ed io ci eravamo rivolti a una psicologa, ma senza risultati». Perché i disturbi del comportamento alimentare vanno curati da professionisti specializzati. «Il pasto non era più un pasto, era una lotta - ricorda Stella -. Poi i medici mi hanno messa di fronte alla realtà, dicendomi che mia figlia doveva essere ricoverata». Una degenza di quattro mesi nel reparto di Neuropsichiatria infantile dell’ospedale Civile: «Sono stati i nostri salvatori», commenta Stella.
Come sono andate le cose Carlotta se lo ricorda bene: «C’era una persona che mi prendeva in giro, diceva che avevo i rotolini ed ero grassa. Quando hanno chiuso la scuola ho iniziato a pensare al cibo tutto il giorno, a come mangiare meno e bruciare più calorie possibili. Facevo chilometri intorno alla casa, di corsa o in bicicletta. Poi mi hanno ricoverata, ma non volevo stare lì e le prime due settimane mi alimentavano solo con flebo e sondino. Il clic mi è scattato vedendo mio fratello e mio papà dall’oblò di vetro, perché solo mia mamma poteva stare con me. Erano le feste di Natale, e mi sono detta: che senso ha tutto questo? Così ci ho provato». Oggi Carlotta sta decisamente meglio, anche se ammette lei stessa di essere sempre «sulle montagne russe». E Stella fa un mea culpa: «Sono stata troppo esigente, soprattutto con la scuola. Per affrontare questa malattia ci vuole l’umiltà di mettersi in discussione».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
