Maltrattamenti «fatto culturale», la vittima: «Non sia una scusa, mi trattava da schiava»

Parla la donna che ha denunciato l’ex marito ora a processo: «Ho lottato per me, per le mie figlie e continuerò a farlo per le altre donne»
Il tribunale di Brescia - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Il tribunale di Brescia - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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Se la richiesta del pubblico ministero venisse soddisfatta, l'ex marito, imputato a processo per maltrattamenti fisici e psicologici, sarebbe assolto perché il suo comportamento sarebbe connesso all'«impianto culturale» del paese d'origine, il Bangladesh.

Per la precisione, le parole dell'accusa sono state: «I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine».

La donna che ha denunciato i maltrattamenti dell'uomo, ora ex marito, ha risposto così alle nostre domande.

Il processo in cui è parte civile finirà tra alcune settimane. Cosa ha pensato quando ha letto le conclusioni del pubblico ministero?

«Purtroppo si sente spesso di donne uccise o maltrattate perché non accettano la vita imposta dalla cultura d’origine o che scappano dall’uomo padrone e proprietario del loro corpo e della loro vita. L’Italia è un paese che io amo, che mio padre ha amato perché permette di vivere liberi e uguali. Io rispetto tutto e tutti, anche la cultura di origine, ma ritengo che in Italia chi vuole sostenere certe pratiche culturali debba, prima di farlo, assicurarsi che non vada contro la legge. Non può certo la cultura essere una scusante come scrive il pm. Io ho lottato per me, per le mie figlie e continuerò a farlo per le donne che subiscono oggi quello che ho subito io, affinché possano sentirsi libere di denunciare senza subire i pregiudizi».

Lei si è sposata secondo un matrimonio combinato. Ha provato a dire no?

«Dall’età di quattro anni ho vissuto a Brescia, e nel 2013, dopo la morte di mio padre e subito dopo la sua sepoltura in Bangladesh i miei zii mi hanno costretta a sposare un mio cugino al quale sono stata "venduta" per 5.000 euro. Io avevo 17 anni, studiavo alle superiori, ma il mio oppormi non è servito a nulla. Hanno deciso gli altri per me».

Dopo il matrimonio cosa è successo?

«Siamo tornati in Italia e con mio marito siamo stati in casa di mia mamma fino alla nascita della prima figlia. Poi siamo andati a vivere da soli. Da subito mi ha costretta a stare in casa. Durante la settimana lui lavorava, nel fine settimana si dedicava agli amici, mentre io ero nella stanzetta con la piccola perché non potevo partecipare alle riunioni di uomini. Potevo solo uscire quando c’erano serate con le mogli degli altri ed ero costretta a indossare abiti islamici. Non potevo dire nulla, oppormi a queste situazioni, altrimenti ricevevo urla, insulti e botte. Con la bimba di circa un anno e mezzo mi ha portato in Bangladesh per fare una vacanza, poi lui è rientrato in Italia e mi ha costretta a restare in Bangladesh. Nel frattempo ho scoperto di aspettare la mia seconda figlia che è nata nel 2017. Mi diceva che con due bambine nessuno mi avrebbe presa, che non potevo andare da nessun’altra parte. Così con le botte, gli insulti, e il ricordo di essere in gabbia mi ha costretta a sottostare alla condizione di schiava per anni. Nel 2019 ho trovato il coraggio di denunciare dopo anni di totale annullamento con la costante minaccia di essere portata definitivamente in Bangladesh».

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