Lutto al tempo dei social e dei sepolcri virtuali

Dalla poetica del Foscolo allo smartphone: la riflessione di Claudio Baroni
I Sepolcri. La poesia del Foscolo ha cantato le tombe dei grandi e oggi i social elaborano il lutto - Foto © www.giornaledibrescia.it
I Sepolcri. La poesia del Foscolo ha cantato le tombe dei grandi e oggi i social elaborano il lutto - Foto © www.giornaledibrescia.it
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Da che mondo è mondo, prima o poi l’uomo si trova alle prese con l’elaborazione del lutto. È un’azione contigua ma diversa dall’interrogarsi sul significato della vita e dell’esistenza, appartiene alla nostra innata tensione all’eternità. O forse solo alla speranza di continuità, come reazione minima al Nulla.

Gli antichi seppellivano i loro morti attorniati dai ricordi più cari e dal necessario per il «viaggio», sperando così di rendere più comodo, se non meno doloroso, il passaggio all’Aldilà. Anche chi crede nella resurrezione, spesso, non è riuscito ad accontentarsi d'un loculo in una catacomba. Basta entrare in una chiesa, per rendersene conto. Con morte e tombe i romantici hanno intessuto un rapporto privilegiato: hanno ereditato il mito classico e ne hanno edificato monumenti. Hanno eretto «l’urne de’ forti» cantate da Ugo Foscolo, proprio a Brescia, nel (lontano, vicino?) 1807.

Persino l’editto di Napoleone, che aveva finalità egualitarie, è diventato il fondamento dei cimiteri monumentali. I sepolcri sono lo specchio della società e della civiltà che li edifica. E non sfugge alla regola il nostro tempo «social».

Facebook e Twitter - più di Instagram, che è connotato da un consumo rapido - hanno ampi spazi che si stanno trasformando in altrettante colline di Spoon River. Homepage, profili, ologrammi: si allarga sui cloud virtuali il recinto dei trapassati, che così sopravvivono ben al di là dell’immaginazione poetica di Foscolo e di Edgard Lee Master. Come al solito, nel mondo dei social, la questione è virtuale ma non sempre virtuosa. Assai spesso si tratta di soldi e affari, a cominciare dai profili Facebook delle case di onoranze funebri, dove si possono postare pensieri e moniti, a partecipazione e ricordo del «caro estinto».

Sui guadagni si basa anche la resistenza dei social network, nel non voler cancellare i profili di chi muore, perché mantenere vivi gli account «fa numero» e sui numeri loro fanno cassa. Accadrà così che - come ha calcolato Hachem Saddikki dell'University of Massachusetts - nel 2098 su Facebook ci saranno più morti che vivi. Milioni di profili-fantasma a galleggiare nel web, come i due milioni di utenti deceduti nell'ultimo anno solo negli Stati Uniti, e che nessuno ha cancellato.

Oltreoceano non vi è alcuna regola, mentre nell’Unione Europea la normativa sulla privacy stabilisce che i dati sono un diritto inalienabile della persona e quindi muoiono con essa. Ma chi lo fa sapere a Facebook, che fa finta di nulla? (Qui la scheda: Cosa succede all'account Fb di un utente dopo il suo decesso?) Questione intricata, ma anche più complessa e profonda, al punto che un filosofo, Davide Sisto, vi ha dedicato un corposo saggio, «La morte si fa social» (ed. Bollati Boringhieri).

Da una parte sta il desiderio dei diretti interessati di lasciare tracce e registrazioni destinate a sopravvivere loro. Gesti non sempre intenzionali, ma non per questo meno convinti, per rendere «il sonno della morte men duro» lasciando «eredità d’affetti» e suscitando «corrispondenza d’amorosi sensi». Lo diceva già Foscolo due secoli fa. Se alziamo lo sguardo oltre il confine dei social, la tecnologia offre risorse illimitate: Hollywood ha già ampiamente sperimentato il modo di scannerizzare persone per crearne duplicati digitali che possano muoversi sulla scena in piena libertà, come fossero in carne ed ossa, ma senza i limiti che un corpo umano ha. Eterni, nella nostra migliore versione.

Ma che utilità può avere il perpetuarsi in alter ego digitali, che per quanto somiglianti, sono comunque fantasmi? D'altra parte, non meno rischiose sono le conseguenze per chi rimane, per chi dovrebbe elaborare la scomparsa traducendola in memoria. Si può andare, come reazione, dall’ancorarsi morbosamente al passato, restandone prigionieri, fino al trasformare il dolore in una ripetizione insopportabile, in una «noia mortale».

Infine, muta la sostanza se cambia la forma? Sì, e almeno per un paio di ragioni. Innanzitutto, i sepolcri foscoliani sono (erano) collocati a monito visibile per tutti e da tutti percepibile, nella loro monumentale solidità, mentre un profilo social, per quante visualizzazioni e condivisioni riesca a contare, resta singolo, isolato e per definizione «virtuale», immateriale ed evanescente. E ciò - spiega il filosofo - ridefinisce profondamente non solo i meccanismi di elaborazione del lutto ma anche la nostra concezione del tempo e dello spazio.

La seconda ragione sta nel supporto. Chi si sentirebbe di scommettere che Facebook e Twitter saranno più resistenti e longevi dei sepolcri in marmo e bronzo? Quanto durerà la moda dei social? Una risposta, forse, si può trovare nelle Operette morali di Giacomo Leopardi, quando con ironia e lungimiranza, spiega che moda e morte, a dispetto delle apparenze, sono sorelle inseparabili, entrambe figlie della caducità di questo mondo.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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