L’uovo della speranza in una lama di luce

Lo spirito della cova tra pollai e antri oscuri: il nuovo appuntamento con la nostra rubrica dedicata alla nostra lingua
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L’arrivo (speriamo) di uno spiraglio di primavera diffonde nell’aria uno spirito inquieto. È la stagione in cui le galline riprendono a deporre uova con regolarità. Ed è la stagione in cui bisogna saper scegliere tra l’uovo oggi e la gallina domani. Mia nonna lo faceva con occhio e saggezza: si chiudeva nel ripostiglio più scuro in fondo al cortile della cascina, e lasciando entrare dalla pesante porta in legno solo una sottile lama di luce cominciava a «sperà i öf». Prendeva le uova dal pollaio, le metteva una alla volta controluce e intuiva il tuorlo attraverso il guscio, vaticinando se l’uovo era fecondato oppure no. Nel primo caso lo lasciava alla cova (meglio una gallina domani), nel secondo lo faceva «a ciarighì» (meglio un uovo oggi).

A me - bambino che seguiva in silenzio la cerimonia in quell’antro polveroso - sembrava che quell’operazione di «sperà i öf» avesse a che fare sia con la lama di luce (lo spiraglio, lo «spiraculum» latino legato allo «spirare», al soffio mistico di ciò che non a caso si chiama «spirito») sia con la speranza (la «spes» latina di «sperare»). Pareva quasi che una forma di speranza la nutrissero anche le galline che aspettavano il responso fuori, in cortile. Quelle che avevano le uova fecondate se le ritrovavano pronte per la cova. Quelle che non c’erano ancora riuscite vedevano però nella loro cuccia un «èndes» (che «indica» il nido), un uovo vecchio (e puzzolentissimo a romperlo) lasciato amorevolmente da mia nonna. Era il «gnal», l’invito a restare generose. In fondo anche questo è lo spirito inquieto della primavera.

 

 

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