L’occhio, la formaèla e i bresà tajacantóni
Risolvere un problema? Questione di angoli d’osservazione. Una mail della nostra Angela di Botticino mi ha ricordato quella vecchia serenissima filastrocca che comincia «Venessiàni gran signori, padovani gran dotòri...» e che verso la fine cita anche noi, allora operosa periferia di San Marco. Dice: «... i bresàn tàjacantóni...».
Ma tajacantòni è complimento o critica? Innanzitutto nel nostro dialetto cantù significa angolo, ma anche luogo appartato, area distinta. Proprio come i Cantoni svizzeri. All’origine c’è il greco kanthòs che significa angolo dell’occhio, angolo palpebrale e quindi visione laterale. Noi bresciani il termine cantù lo usiamo sia per dire di un accantonare (la scàgna róta l’hó lasàda lé en d’èn cantù) sia per indicare un incrocio sulla pubblica via (söl cantù dèla madunìna). Un tàia cantóni è chi nel proprio percorso non si attiene proprio a tutte le svolte ufficiali della via.
Un complimento, quindi, se si ammira la capacità di trovare soluzioni innovative, di arrivare comunque a un risultato (attitudine così bresciana). Una critica, se indica la disponibilità a cercare scorciatoie saltando con furberia norme e regole (attitudine pure bresciana? voi che dite?).
Tutto questo mi ricorda la storiella dei due amici di Gottolengo che davanti a una formaèla quadrata discutono su come darle la forma più elegante. Il primo embèca (ne taglia un triangolo, una bècca, creando un trapezio), il secondo enguàla (ne taglia un secondo triangolo, creando un rettangolo). Avanti così - embèca enguàla, embèca enguàla - il problema dell’eleganza geometrica smette di essere un problema. Scomparso. Come la formaèla.
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