Lo scultore Giuseppe Bergomi: «Intimità e assiduità fanno bene all’arte»

Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo (in calce all’intervista trovate il link diretto alla pagina dedicata del quotidiano orobico).
Brescia Bergamo 2023 per lo scultore Giuseppe Bergomi è iniziato con il monumento per le vittime del Covid al cimitero Vantiniano, voluto dall’amministrazione comunale e inaugurato il 18 marzo.
L’anno da Capitale della Cultura nasce dalla volontà di «compensare» le due città più colpite dalla pandemia...
L’opera era nata per ricordare le vittime del virus ed è finita nell’anno da Capitale. Mi ha dato un grande piacere aver realizzato quel monumento perché mi ha permesso di testimoniare una mia dimensione estetica che si confaceva perfettamente con questo impegno. Il gruppo di figure sul cubo rappresenta la collettività che davanti al dolore abbassa il capo ed è nuda perché senza difese.
Ma cosa ha comportato quest’anno da Capitale per l’arte figurativa bresciana?
Stiamo vedendo tante piccole manifestazioni più o meno autonome, che però rischiano di perdersi in un grande calderone. Penso alla mostra storica di Ceruti che è stata la più importante, e ora è a Los Angeles; penso alla mostra in Palazzo Martinengo di Donzelli e Pezzi, testimoni di una contemporaneità intelligente; penso a mostre di star come Plessi. È stato un anno pieno di velleità più o meno motivate ma che non ha cambiato il clima della gente nei confronti dell’arte, perché pittura e scultura incidono poco sul vissuto di una persona. L’arte non vive di eventi, mentre la nostra società senza quelli non si muove.
Di cosa ha bisogno l’arte?
L’arte ha bisogno di frequentazioni quotidiane, non di occasioni con fanfare alle spalle, di show. L’arte è tutto meno che show. Si parla tanto di cultura ma questa per ognuno ha un peso marginalissimo, e questa condizione non la si cambia con un concentrato di eventi. L’esperienza estetica ha bisogno di intimità e di frequentazioni non saltuarie.
Si potrebbe partire dall’educazione nelle scuole?
Sì ma l’educazione serve se fatta seriamente e a fondo. Herbert Read nel suo libro «Educare con l’arte» scriveva che noi vogliamo l’arte tutti i giorni, anzi, sempre. Alla base dell’educazione ci deve essere l’esperienza estetica e questo ha poco a che vedere con la realtà delle cose. L’arte è conoscenza attraverso i sensi e apre a tutte le materie, dalla matematica alla letteratura. Ma va frequentata assiduamente.
Tornando all’anno da Capitale, lei espone le sue opere in due mostre. Una all’ex Cavallerizza…
Sì è un incontro tra artisti bresciani e bergamaschi. È lo specchio di come gli artisti si trovano oggi a produrre: manifestano le varie sensibilità ma tutte isolate tra loro, come se non ci fosse un bisogno collettivo con cui fare i conti.
E la seconda?
Chiara Fasser con la sua Galleria dell’Incisione e Marcella Cattaneo della Fondazione Piero Cattaneo di Bergamo hanno organizzato una settimana in cui si aprono i nostri studi, e sarà accompagnata da una mostra - alla Galleria dell’Incisione dal 5/10 - di tre esperienze bresciane, quasi tre generazioni di scultori: Giuseppe Rivadossi, io e Livio Scarpella, con una documentazione di una piccola parte del loro percorso. Rivadossi e Scarpella sono due compagni di strada, due artisti di cui ho una grande stima.
Sappiamo che sta preparando anche altro
Sì, con Fondazione Brescia Musei stiamo lavorando ad un progetto per il 2024, ma ora è prematuro parlarne.
Come realizza le sue opere?
Non utilizzo fotografie, perché ho costruito un mio linguaggio che nasce dalle emozioni in presa diretta, utilizzando tutto il tempo che un’opera richiede. Con una fotografia non ricostruisco quell’esperienza che mi pone davanti ai miei modelli per ore e per giorni. Un’esperienza intrisa di tempo, di tensione e di emotività. È uno sguardo a tutto tondo e a tutto tempo. E aggiungo un’ultima cosa: una scultura si capisce se la si vede di persona, e non attraverso lo schermo di un telefonino.
Qui il link per leggere l’intervista sull’Eco di Bergamo
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