Lo psicoterapeuta: «Ai figli delle vittime dei femminicidi servono sicurezze»

Parla Giuseppe Maiolo all'indomani della testimonianza in aula della figlia di Giuseppina Di Luca, uccisa ad Agnosine nel 2021
Lo psicoterapeuta Giuseppe Maiolo
Lo psicoterapeuta Giuseppe Maiolo
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Ieri in aula a Brescia ha testimoniato la figlia di 27 anni di Giuseppina Di Luca, uccisa il 13 settembre 2021 ad Agnosine dal marito da cui si stava separando Paolo Vecchia.

Tanya, questo il nome della ragazza, ha raccontato come più volte il padre avesse detto di voler uccidere Giuseppina Di Luca. Lei e la sorella però non pensavano sarebbe successo. 

Per capire il trauma dei figli e delle figlie di una vittima di femminicidio abbiamo parlato con lo psicoterapeuta Giuseppe Maiolo.

Nei casi di femminicidio si parla di chi non c'è più e di chi viene condannato. Ma spesso ci sono i figli. Che rimangono soli. Un trauma che segna per sempre?

Purtroppo sì, la violenza può essere devastante anche con i figli che rimangono. È un trauma inimmaginabile che genera danni incalcolabili nelle cosiddette «vittime collaterali» come vengono chiamati questi orfani apparentemente coinvolti solo di lato alla tragedia. Del resto «vittime collaterali», che è un’espressione cinica e fredda, fa pensare a un trauma meno grave. Ma soprattutto come dice Il sociologo Bauman, sono espressione di una sconcertante ineguaglianza sociale. Così si dimenticano in fretta quei bambini o quegli adolescenti, le loro storie e le loro esistenze.

I media non ne parlano se non a ridosso degli eventi, mentre in realtà sono gli sconfitti in assoluto che portano per tutta la vita traumi profondi. L’idea comune è che ai figli-vittima serva dimenticare il più in fretta possibile. Ma non è così. Il silenzio su ciò che un bambino ha provato è invece più dannoso che utile, perché lascia una profonda ferita aperta, pericolosa.

Mi è capitato di occuparmi di adulti che si portavano dall’infanzia un trauma come la perdita violenta di un genitore. È stato sempre sconvolgente affrontare e quella sofferenza divenuta una voragine: e non si trattava solo della solitudine, ma di sentimenti che andavano dall’angoscia alla disperazione, dal sentimento di sconfitta personale alla rabbia e poi alla vergogna.

Figli che in alcuni casi sono pure testimoni dell’omicidio della madre. C'è un rigetto della figura paterna?

Chi vive queste storie fa i conti con sentimenti ambivalenti che hanno a che fare con il rifiuto degli eventi e delle persone protagoniste come il padre, ma che confliggono anche con le necessità che ha un bambino o un adolescente del genitore, di quel padre la cui funzione dovrebbe essere un’altra, sentimenti struggenti che le vittime da sole non riescono ad elaborare. La psiche «spezzata» dalla violenza, ha bisogno urgente di essere «curata», nel senso di qualcuno che si occupi della sofferenza vissuta. E di solito non è sufficiente l’amore di qualche familiare che si occupa della vittima: l’azione psicoterapeutica è rielaborazione ma anche intervento ricostruttivo.

I figli che rimangono soli, sono abbandonati o trovano un aiuto nella società e nella giustizia di oggi?

Purtroppo spesso accade che i figli si ritrovino ad arrangiarsi da soli. Gli orfani di un femminicidio si ritrovano nella necessità di affrontare un dramma indicibile fatto di vissuti, bisogni, angosce laceranti a cui un bambino da solo non può mettere riapro. Hanno bisogno prima di un intervento di psicologia emergenziale e poi di una azione terapeutica complessa che possa da una parte lenire il dolore e dall’altra riorganizzare la vita, far ritrovare sicurezza, fiducia, futuro, l’esistenza stessa. La sensazione è che la società e anche la giustizia spesso si dimentichino di questi figli orfani, anche loro in parte «uccisi».

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