L’ex Br Bonisoli e Agnese Moro: «Dalla violenza nasce solo altra violenza»
«I morti sono morti, purtroppo». Non c’è rimedio, non si può tornare indietro. Franco Bonisoli si interrompe, la voce bloccata dal pianto. Agnese Moro, seduta vicina, gli tocca una spalla, quasi una carezza per fargli coraggio.
Un gesto di confidenza, che sottolinea la loro amicizia. Il brigatista rosso che ha partecipato al sequestro del presidente della Dc e al massacro della sua scorta il 16 marzo 1978 e la figlia di Aldo, lo statista ucciso il 9 maggio. Insieme, a parlare di giustizia riparativa. Quella che nega la vendetta, ma richiede l’incontro fra l’autore del male e chi lo subisce, lungo un percorso che porta a condividere il reciproco dolore. Franco Bonisoli ha alle spalle quattro ergastoli, ha scontato 22 anni e mezzo di carcere, si è dissociato dalla lotta armata e si è rifatto una vita. Insieme ad Agnese va spesso nelle scuole per portare, spiega, «lo stesso messaggio di dialogo e comprensione. Perché dalla violenza nasce solo violenza».
L’ex brigatista e Agnese Moro siedono allo stesso tavolo nella sala convegni della Poliambulanza nell’ambito degli incontri culturali promossi dall’omonima Fondazione. Si parla di «Giustizia riparativa: la ferita, e poi la cura». Con loro ci sono Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari dei Caduti di piazza Loggia; il prof. Luciano Eusebi, docente di Diritto penale alla Cattolica di Milano; mons. Giacomo Canobbio.
Le ferite
«Ho provocato tante e forti ferite», esordisce Bonisoli, che entra in clandestinità nel 1974 a 19 anni, diventa un dirigente delle Br, partecipa all’agguato di via Fani e viene catturato pochi mesi dopo. «Credevo che la lotta armata, in quel momento, fosse l’unico modo per migliorare il mondo e combattere le ingiustizie. Volevo creare un mondo di pace attraverso la guerra». Gli anni di carcere speciale, «in condizioni durissime, mi rendevano ancora più duro».
La svolta avviene tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984. Uno sciopero della fame cominciato da Bonisoli con altri suoi compagni per protestare contro il regime carcerario a Nuoro («Eravamo dei sepolti vivi») sfocia in un dialogo con le istituzioni penitenziarie. «Il ministro Mino Martinazzoli - ricorda - si interessò al problema, allentando le misure». Si arrivò poi alla riforma del sistema penitenziario.
La cura
Nel frattempo, dice Bonisoli, «ho vissuto una crisi profonda. Ho cominciato a non credere più alla violenza, a quella condizione che ti fa vedere l’altro come un nemico da eliminare e non come una persona. Ho capito che disumanizzare l’altro significa disumanizzare se stessi. Il peso di quanto avevo fatto era insostenibile». Dopo la scarcerazione, Bonisoli ha deciso «di affrontare il problema, cercando un dialogo di comprensione umana. Il senso di colpa si è trasformato in senso di responsabilità: incontrare chi avevo ferito». A cominciare da Agnese Moro: «Non avrei mai pensato di sviluppare addirittura un’amicizia con lei».
La figlia di Aldo usa l’immagine di un famoso quadro per rappresentare il suo stato d’animo negli anni dopo via Fani: «L’Urlo di Munch. L’urlo di una persona isolata, il grido che non esce, che contiene dolore, immobilità, orrore, fantasmi, sentimenti brutti». Poi, spiega, «ho scoperto che forse c’era un’altra strada da seguire, trasformando quell’urlo in parole». Da pronunciare e sentire con chi aveva provocato la sofferenza: «Ci si salva solo insieme. Il mio urlo deve essere ascoltato da chi mi ha fatto del male, e lui deve sentire il mio». Perché la vita abbia ancora senso e non diventi semplice sopravvivenza.
Manlio Milani ha cominciato un percorso di giustizia riparativa nel 2009 dialogando con gli ex terroristi rossi («Per me resta impossibile farlo con l’autore materiale della Strage del 28 Maggio: non c’è ancora»). «Volevo capire chi erano, perché la lotta armata». Una strada che negli anni l’ha portato anche a Gerusalemme per incontrare famiglie israeliane e palestinesi riconciliate. Il pensiero va a quanto sta accadendo in questi giorni in quelle terre. «Il faro del nostro agire - chiude Milani - deve essere il rispetto dei diritti umani di tutti».
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