L’emozione del ritorno «in trincea»

Perché «l’essere medico non viene mai meno nel corso degli anni se rimane la passione»
Un reparto ospedaliero durante l'emergenza Covid - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
Un reparto ospedaliero durante l'emergenza Covid - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
AA

Prosegue la pubblicazione delle testimonianze di «Cuori in prima linea», l'iniziativa promossa da Giornale di Brescia e IntesaSanPaolo: abbonamenti trimestrali gratuiti al GdB in versione Digital e la possibilità riservata sempre al personale sanitario che ha affrontato la pandemia in tutta la sua durezza - professionale e psicologica - di raccontare le storie vissute durante la pandemia per farne un prezioso patrimonio di testimonianze da preservare.

Le storie possono essere inviate all'indirizzo email cuorinprimalinea@giornaledibrescia.it.

Il 15 marzo ho deciso di rispondere con un sì all’appello dei colleghi medici e del direttore sanitario dell’Asst del Garda per una urgente necessità di tornare in Ospedale a Manerbio per far fronte all’emergenza della Medicina e del Pronto soccorso contro lo tsunami della pandemia che ha prodotto uno squarcio sul fronte della guerra contro questo nemico invisibile e terribile. Anche se all’inizio ho tentennato nel rispondere, poi ho accettato perché non potevo rimanere indifferente e rifiutare questa possibilità di sentirmi di nuovo utile nell’Ospedale dove ho lavorato per molti anni. Non posso dare un giudizio per la mia scelta, razionale ed emotiva al tempo stesso, ma è stato un sentire la motivazione profonda che sta alla radice della professione del medico, che non solo ha la necessità del sapere, ma deve ispirarsi ai valori fondamentali, assumendo come principio la difesa della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona. In questa circostanza è stata diversa la situazione dei pazienti che si trovavano in una drammatica condizione di malattia mortifera, che ha sottratto totalmente la libertà, che ha tolto o limitato il tempo di decidere della propria vita, dove non c’era tempo o possibilità, soprattutto all’inizio, di rispettare tutta la prassi del consenso informato, dell’uso di farmaci comprovati da studi clinici, perché l’urgenza di salvare soprattutto con l’ossigenoterapia immediata, rendeva le persone come prigioniere di una situazione che superava ogni legittima possibilità al confronto dialettico tra medico e paziente.

 Uno stato di paura comunque aleggiava nei reparti, dove l’attenzione ad evitare il contagio rappresentava il primo aspetto dell’assistenza, ma che allo stesso tempo, per gli eventi tumultuosi, non permetteva di dialogare a lungo con chi non poteva togliersi neanche per un momento la maschera di ossigeno per il rischio di desaturare improvvisamente. Controlli continui da parte del personale infermieristico e medico, per verificare la saturazione di ossigeno, la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la frequenza respiratoria. Affrontando le specifiche situazioni con la competenza internistica, raccolta in tanti anni di lavoro, si è progressivamente aperto uno spiraglio di luce in fondo al tunnel, ed è riapparsa la gioia nostra e dei pazienti che ogni giorno vedevano abbassarsi la quota di ossigeno da somministrare. Una gioia condivisa anche per telefono con i parenti ai quali si poteva ogni giorno far conoscere la situazione del proprio congiunto in via di guarigione.

Diversa è stata la tristezza di dover informare del peggioramento o della stessa morte del familiare e sentire la sofferenza di chi non avrebbe potuto rivederlo per un commiato e per una benedizione. La gioia dei pazienti che percepivano il miglioramento, produceva l’intensificarsi dei rapporti umani, la possibilità della videochiamata ai familiari rallegrava la loro permanenza, anche se per alcuni è stato difficile sopportare la morte di compagni di stanza, come in una vera battaglia. Personalmente ringrazio il cielo per la straordinaria accoglienza dai colleghi e amici conosciuti nel corso degli anni, dal personale infermieristico e ausiliario e amministrativo diventava umanamente una grande consolazione.

Devo ringraziare anche mia moglie che ha dovuto vivere un tempo di quarantena precauzionale per questa mia avventura. Tutto questo ha influito molto sulla sfera emotiva e mi ha sostenuto in tutto questo tempo trascorso nella bufera. Ho dovuto talvolta pregare lo Spirito Santo perché potessi sostenere quello scempio scandaloso della vita umana e per alcuni pazienti sono riuscito a lasciare un segno di croce o una benedizione o recitare il miserere prima della morte. Sono rimasto incontaminato per grazia ricevuta e sono felice di aver potuto servire come medico per questa battaglia e soprattutto, con il mio ritorno in Ospedale, di aver prodotto sostegno e desiderio di lottare a chi con me ha lavorato tanti anni. Io penso che l’essere medico non venga mai meno nel corso degli anni se rimane la passione e lo spirito di abnegazione che producono una sensazione di giovinezza interiore che riaffiora come se si tornasse ai primi anni della professione con il desiderio di imparare, di stupirsi e acquisire di nuovo questa meravigliosa arte.

Nel corso di oltre 40 anni di servizio, ho conosciuto e curato molte patologie, questa pandemia ci pone di fronte a una nuova malattia virale che impareremo a combattere. Anche nel futuro incontreremo nuove patologie ora sconosciute, l’umanità deve imparare a relazionarsi con più intelligenza con il Creato e ogni persona deve ravvedersi dal fare del male a se stesso con abitudini scellerate che producono malattie che poi ricadono sempre sugli altri.

Giuseppe Colosini - Medico in pensione rientrato in servizio all’ospedale di Manerbio

Leggi le altre storie >>

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Condividi l'articolo

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato