Le molte sfumature di chi ha l’Alzheimer, diecimila persone solo nel Bresciano
All’inizio la malattia è lieve, il suo percorso è graduale. Il malato e gli stessi familiari la rimuovono e si aggrappano ai momenti in cui tutto sembra «normale». Nella comprensibile illusione che la diagnosi sia sbagliata. Non è facile accettare di avere l’Alzheimer. Poi tutto precipita e già nella fase moderata della malattia la persona ha bisogno di un aiuto costante. Di persone che solo nel Bresciano hanno bisogno di questo aiuto ce ne sono circa diecimila, su 18mila diagnosi di demenza.
I riferimenti
Sotto il profilo clinico, ci sono riferimenti «standard» in base ai quali la durata della malattia va dai sette ai dieci anni, di cui due e mezzo di fase lieve, quattro di moderata e il resto di fase grave. Tuttavia, la progressione è quanto mai varia e ogni persona sviluppa una propria storia. Ciascuno di noi ne potrebbe raccontare una.
Racconta, un paziente: «Siamo tutti diversi. Se si leggono i libri, ci si fa un’idea della demenza in bianco e nero. Per questo tutti, anche gli operatori, spesso trattano chi è affetto da demenza come se non avesse più nulla da dire o qualcosa a cui contribuire. Ai malati viene detto cosa fare e non fare. Noi non facciamo parte della conversazione che ci riguarda». Una difficoltà a comunicare che fa precipitare i protagonisti in una profonda solitudine, un senso di abbandono totale, che finisce per ghettizzare malato e familiari in una condizione di chiusura totale alla vita sociale e civile con tutte le ripercussioni del caso.
Perché la Giornata
Ogni anno il 21 settembre si celebra la Giornata mondiale dell’Alzheimer, istituita nel 1994 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Alzheimer’s Disease International per diffondere iniziative dedicate alla conoscenza e alla diffusione delle informazioni sulla malattia. In quasi trent’anni molto è cambiato. Lo è, di certo, nelle celebrazioni della Giornata, spalmate ormai su tutto il mese di settembre, e che sono caratterizzate da una sensibilità diffusa, da un senso di vicinanza, dalla consapevolezza che l’Alzheimer è molto più di una questione medica. Tant’è che le strategie terapeutiche a disposizione per le demenze sono di tipo farmacologico, psicosociale e di gestione integrata per la continuità assistenziale.
Diagnosi precoce
«Ciò che sta cambiando è il crescere delle evidenze scientifiche a favore della possibilità di individuare i soggetti a rischio tramite marcatori plasmatici più facilmente accessibili tramite semplici prelievi ematici - spiega Alessandro Padovani, presidente eletto della Società italiana di Neurologia e direttore della Clinica neurologica universitaria all’Ospedale Civile -. Alcuni di questi possono indicare se l’accumulo di amiloide nel cervello rappresenta solo una soglia di rischio o se invece indica già la presenza di malattia».
Una volta diagnosticata, la malattia incontra altri ostacoli. «In Europa i nuovi farmaci per questa malattia non sono stati autorizzati - spiega Orazio Zanetti, primario dell’Unità Operativa Alzheimer dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia -. Il crescente numero di persone con patologie croniche, tra cui anche l’Alzheimer, impone di trovare modelli socio-assistenziali innovativi che, seguendo una filosofia di gestione integrata della malattia, assicurino una reale continuità di cura mantenendo il paziente e la sua famiglia al centro del percorso. La diagnosi precoce è importante perché permette di trattare la malattia prima che sia tardi. Oggi ci sono gli strumenti che la rendono possibile».
Terapie
Oggi, grazie ai farmaci biologici, si punta soprattutto a ripulire il cervello dagli accumuli di beta-amiloide, la proteina che provoca il progressivo deterioramento delle funzioni cognitive. Ma servono approcci terapeutici combinati, fatti anche di prevenzione e di comprensione dei fattori di rischio.
Il futuro
Marco Trabucchi del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia: «Siamo in un momento di grande sviluppo degli studi volti a far crescere le possibilità di cura dell’Alzheimer, sia in termini preventivi sia terapeutici. Forse non si arriverà a dare risposte definitive a breve, ma i lavori sugli anticorpi monoclonali contro la beta amiloide si stanno diffondendo il tutto il mondo con buoni risultati. A questi si avvicinano studi su altri meccanismi d’azione; nel complesso la malattia nelle fasi iniziali può essere rallentata. Rifuggiamo da false speranze ma dalla ricerca giungono serie e concrete speranze».
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