Lasciamo che le ragazze di Kobanê tornino a casa
Non possiamo restare indifferenti alle parole del bambino siriano che ha detto: «Quando morirò dirò tutto a Dio». Dovranno parlare anche le ragazze curde, quelle che indossano la divisa di un esercito costituitosi a causa di un’endemica disperazione.
Le partigiane di Kobanê sono nipoti di quelle donne che un tempo si tatuavano il mento per sembrare più belle, oggi sono le resistenti a cui il poeta Abdulla Goran ha dedicato una poesia colma di rassegnazione che fa morire dal piangere. «Io vado, madre. Se non torno, sarò un fiore di questa montagna, frammento di terra per un mondo più grande di questo». La loro è una terra martoriata, dove la morte coabita con la vita, ma ci nascono donne fiere che stanche di impastare il pane con le lacrime hanno imparato a sparare per proteggere i figli, i vecchi e loro stesse. Le hanno viste difendersi come leonesse contro le bandiere nere dell’Isis, quando i rastrellamenti compiuti casa per casa facevano strame della popolazione terrorizzata. Sono madri-soldato che rivendicano la loro femminilità combattendo con le trecce sul petto e gli orecchini di vetro colorato quasi abbinati al camouflage della tuta mimetica, necessaria a renderle meno visibili al nemico che assediava le loro case e le prendeva come bottino di guerra.
Anche le grida del popolo armeno sono state negate, ma l’omicidio compiuto su base etnica descritto da Antonia Arslan nel libro «La fattoria delle allodole» oggi viene considerato il primo genocidio del ventesimo secolo. Quel vocabolo coniato nel 1944 che oggi identifica il popolo Ebreo è diventato il triste paradigma sul quale si declinano analoghe tragedie umane. Le tragedie lontane non lasciano lividi e i conflitti armati vissuti davanti al televisore concedono sempre un discreto distacco, tuttavia le immagini cruente che arrivano ci costringono ad aprire gli occhi e il cuore. I nuovi scenari politici non potranno lasciare inascoltata la supplica delle donne curde che si sentono abbandonate dalla comunità civile. La vecchia canzone che diceva «se tutte le ragazze del mondo si dessero la mano, allora si farebbe un girotondo intorno al mondo» fa nascere il sogno di costruire un cerchio di mani unite, dentro il quale gli uomini imparino a trasformare la guerra in pace. Così le ragazze di Kobanê potranno scendere dalle montagne e fare ritorno a casa.
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