La vita e il destino dei deportati bresciani nei lager nazisti

Sul sito dell’Aned la banca dati elaborata da Cucchini con 417 biografie. Ebrei partigiani e militari
LA GIORNATA DELLA MEMORIA
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«Le SS adottavano sempre nuovi metodi barbari per fiaccarci, per renderci inerti mentalmente e fisicamente, incapaci di ragionare e di ribellarci. Quando una persona è ridotta come una bestia e sente soltanto gli stimoli della fame è più facile comandarla, punirla e farla lavorare». Sono parole di Enrichetta Comincioli (1923-2016), partigiana camuna, sopravvissuta al lager di Ravensbrück. «Vivevamo in una schiavitù dove la fame era una realtà quotidiana, come la dissenteria, il freddo, il lavoro massacrante che ti riducevano come una larva e che a molti facevano pensare alla morte come a una liberazione».

Enrichetta è una dei 417 deportati politici bresciani finiti nei campi di concentramento nazisti. Bresciani in senso largo, nati oppure vissuti nella nostra provincia, catturati nei suoi confini o altrove. Un lavoro di ricerca condotto da Roberto Cucchini per conto dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati), che ha prodotto una banca dati pubblicata sul sito del sodalizio. Schede biografiche individuali che raccontano la storia collettiva di chi, per ragioni diverse, fu perseguitato dal nazifascismo.

Da Mario Accordini di Lonato, morto a 32 anni in campo di concentramento a Nordhausen, a Giovanni Zuccherini, nato a Tremosine e scampato all’inferno di Dachau. Quattro le classi di deportati individuate da Cucchini. I partigiani o comunque le persone che in qualche modo parteciparono alla Resistenza; i renitenti alla leva e i disertori nelle unità della Repubblica sociale; gli internati militari dopo l’8 settembre ’43 autori di gesti ostili, di protesta, disobbedienza o sabotaggio; gli ebrei. Cucchini ha svolto un’analisi storica e statistica certosina sulle biografie. Sta lavorando a un saggio che descrive provenienza, grado di istruzione, mestiere, motivi dell’arresto, causa della morte per le varie categorie; uno studio corposo che sarà concluso e pubblicato sul sito Aned di Brescia nelle prossime settimane.

Nella loro diversità le 417 biografie rappresentano uno spaccato straordinario di vita e di storia. Non c’è omogeneità fra loro. Sono tante e anche molto differenti le ragioni per cui questi uomini e queste donne finirono nei lager in Germania: convinzioni etiche morali e politiche, motivi personali, condizioni psicologiche, il carattere, la casualità. Una cosa, comunque, accomuna la stragrande maggioranza: il silenzio, l’oblio. In seguito, pochi sopravvissuti (fra loro Enrichetta Comincioli) raccontarono la tremenda esperienza vissuta nei campi. Cucchini ne elenca le cause: pudore, riserbo, ritegno, amarezza, delusione, senso di colpa. Un insieme di sentimenti che ha quasi «anestetizzato» la memoria.

«Perché raccontare quelle cose lì - avrebbe testimoniato molto più tardi Angelo Ferretti (1922-2016) di Brescia - non è facile, neanche spiegare realmente quello che abbiamo provato. Adesso oramai non mi domanda niente nessuno e io non dico niente perché non serva a nulla».

Si conoscevano 217 nomi di deportati bresciani. Cucchini ne ha aggiunti altri 200 ampliando le fonti e lo spettro delle persone considerate. Le schede sono state redatte intrecciando le notizie tratte da documenti di istituzioni internazionali (come la Croce Rossa) con le domande fatte dai sopravvissuti per ottenere il riconoscimento dei vitalizi. L’autore ha scandagliato l’Archivio di Stato di Brescia, il Registro matricole del carcere, i fondi dell’Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’Anpi, oltreché una grande quantità di fonti a stampa. Fra i 417 nomi ci sono figure note come Andrea Trebeschi, Carlo Manziana, Teresio Olivelli, Irene Coccoli, Mariuccia Nulli, Giannetto Valzelli, ma soprattutto tante figure di sconosciuti. Biografie di gente semplice, che in anni drammatici seppe tenere alta la testa e la dignità. Molti deportati appartengono alle classi 1917-1926, soldati del regio esercito arrestati dopo l’8 settembre oppure renitenti alla leva o disertori della Rsi. Una forza lavoro giovane, particolarmente gradita all’apparato industriale e l’agricoltura tedeschi. Le cause principali della morte erano le condizioni di lavoro e le malattie.

«Alla mattina ci davano del semolino senza sapore, però aveva il vantaggio di essere bollente. A mezzogiorno delle brodaglie fatte di verdura secca e bollita, non c’era bisogno neanche di cucchiaio. Alla sera invece c’era un po’ di pane... Pane? Un blocco tutto nero, tutto umido, gocciolava. Una cosa schifosa. Bisognava mangiarlo perché non c’erano alternative». Così Agostino Barbieri (1915-2006), sopravvissuto a Mauthausen. Roberto Cucchini inserisce nella banca dati dell’Aned anche le vittime delle persecuzioni razziali. Nell’elenco ci sono ventinove ebrei, venti maschi e nove femmine. Soprattutto ebrei stranieri, arrivati nel Bresciano da altre province o Paesi oppure nati qui ma trasferiti altrove. Solo due sopravvissero, la maggior parte perì ad Auschwitz. Mai dimenticare, come ci sollecita Roberto Cucchini con il suo lavoro.

 

 

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