La storia dei 41 bambini salvati dal genocidio in Ruanda e accolti a Castenedolo
Avevano tra i 4 mesi e i sei anni quando, nell’aprile del 1994, furono strappati dalla guerra civile tra hutu e tutsi in Ruanda e portati in salvo a Castenedolo, in provincia di Brescia. Sono i 41 bambini, ora diventati giovani uomini e donne, che vivevano nell’orfanotrofio Santa Maria a Rilima (a 60 chilometri dalla capitale Kigali), sostenuto dalla Fondazione Tovini, da Medicus Mundi e dall’associazione Museke.
La vicenda del loro salvataggio attirò l’attenzione di tutta Italia, e non solo, tanto che il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro venne in visita all’ex asilo «Riccardo Pisa» nel paese dell'hinterland, dove i bimbi erano stati sistemati con l’aiuto di una schiera di quasi 200 volontari.
Scampati al genocidio
Il sanguinoso conflitto in Ruanda degenerò il 6 aprile 1994, quando l’aereo su cui viaggiava il presidente Juvénal Habyarimana (un hutu moderato) venne abbattuto da due missili terra-aria. Nonostante l’azione non fosse stata ufficialmente rivendicata da nessun gruppo politico, fu sufficiente per scatenare una reazione violentissima, che aveva come obiettivo il massacro degli oppositori del governo. I gruppi paramilitari hutu iniziarono così una caccia alla popolazione di etnia tutsi: un genocidio a colpi di machete che in tre mesi portò allo sterminio di quasi un milione di persone.
A questo bagno di sangue scamparono i 41 orfani di Rilima, grazie all’iniziativa di un gruppo di bresciani, impegnati in Africa come volontari.
Dopo l’attentato al presidente, i miliziani armati si erano presentati all’orfanotrofio. «Fra i nostri dipendenti - racconta Cesarina Alghisi, volontaria di Concesio - alcuni erano tutsi e i soldati volevano ucciderli». Agli 11 bresciani non restava che scappare, ma all’aeroporto i soldati belgi scortarono solo i cittadini europei. «Eravamo terrorizzati per i bambini - ricorda - e implorammo il comandante di tornare a prenderli e salvare anche loro. Ci ascoltò».
Il salvataggio
Gli italiani tornarono in patria il 13 aprile e da quel momento scattò la mobilitazione. Il politico bresciano Mino Martinazzoli sollecitò il ministro della Difesa, Beniamino Andreatta, fino a che un primo gruppo di 21 piccoli ruandesi avvolti in coperte militari venne caricato su un aereo, che atterrò a Ciampino il 14 aprile 1994. Per portarli poi a Verona, vennero fatti sedere in braccio ai passeggeri di un volo civile. «Feci l’appello dal telefono di casa e venne diffuso con l’altoparlante in aeroporto - spiega don Roberto Lombardi, tra i protagonisti della vicenda e all’epoca responsabile della Pastorale universitaria -: non c’erano soldi per i biglietti dei bambini e per non pagare dovevano occupare il posto con un adulto. Ventuno passeggeri si fecero subito avanti».
Gli altri 20 orfani arrivarono all’aeroporto di Ghedi alla mezzanotte del 15 aprile, trasportati con un Dc-9 dell’Aeronautica militare e poi riuniti con i compagni.
La solidarietà
Decine e decine di volontari, quasi 200 persone organizzate in più turni, si misero all’opera per assistere i bambini. Ospitati nella vecchia scuola materna del paese, concessa dal Comune in comodato d’uso gratuito, i 41 orfani avevano bisogno di essere accuditi 24 ore su 24, giorno e notte.
I pasti per gli orfani già svezzati erano forniti dall’asilo «Crescere insieme» del paese, mentre la Casa di riposo offriva il servizio lavanderia. Oltre alle donne e agli uomini bresciani, al fianco dei bambini c'era anche un gruppo di ragazze ruandesi, salvate anche loro e tutelate dall’associazione Museke, fondata dall’imprenditrice castenedolese Enrica Lombardi, morta nel 2015.Il 28 maggio 1994, colpito dallo straordinario slancio di solidarietà, a Castenedolo arrivò anche il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, già a Brescia per la commemorazione della Strage di Piazza della Loggia.
I bambini resteranno nell’ex asilo di Castenedolo per poco meno di due anni.
La polemica sulle adozioni
Dopo aver portato in salvo i 41 bambini, la prima intenzione dei volontari era permettere loro di tornare nel loro Paese d’origine. Dopo le indagini dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni e della Croce Rossa, la situazione del Ruanda si confermò però molto pericolosa, anche a distanza di mesi. Dallo Stato africano, ancora dilaniato dai massacri, arrivarono le sollecitazioni dalle autorità ruandesi che chiedevano la «restituzione» dei bambini. «Siamo preoccupati - replicarono i legali dell’associazione Museke -: il rimpatrio va appoggiato solo a patto che i piccoli possano trovare al ritorno un clima sereno».
Anni dopo, nel 2001, l’ambasciatore ruandese a Bruxelles tornò a chiedere il rimpatrio dei minori, ma il caso si chiuse ancora prima di aprirsi, nonostante le troupe di testate internazionali arrivarono a Brescia pronte a cavalcare la polemica. «Il decreto di adozione è inappellabile - spiegò l’allora sindaco Gianbattista Groli -. È come una sentenza passata in giudicato. I bambini sono tutti ormai cittadini italiani e le indagini fatte in Ruanda hanno stabilito che per nessuno dei 41 orfani c'erano parenti stretti disponibili o in grado di provvedere al loro futuro».
I ragazzi, oggi
Una volta all'anno, i 41 giovani ruandesi si incontrano. Alcuni di loro sono laureati, altri hanno un lavoro stabile, altri sono ancora alla ricerca della loro strada, altri hanno costruito la loro famiglia. Tutti loro onorano la memoria del loro passato e delle loro origini e, nel periodo natalizio, siedono allo stesso tavolo per ricordare, insieme.
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