La simpatia de l’urtìga e la viöla in gita
Primavera. Nei campi e lungo i fossi fioriscono i sederi dei raccoglitori di cicoria. Coi primi tiepidi soli, stuoli di pensionati van per gli incolti e - piegati in avanti a frugare il terreno - fanno incontrare l’attività paleolitica del raccogliere bacche con l’esposizione tutta contemporanea all’inquinamento (arrivano nel piatto foglioline cresciute a piombo e anidride solforosa a margine della provinciale, o col cromo dell’acqua della roggia). Per millenni raccogliere e mangiare erbe selvatiche è stata attività diffusissima. E il dialetto ne dà conto.
Ogni zona della nostra provincia ha un suo vocabolario per distinguere vegetale da vegetale. Nel paese dei miei nonni il tarassaco erano le slàtere, che altrove chiamano grignòs oppure scalète per via delle foglie seghettate. Ci sono i papaveri (le rósole), la valeriana (i grasèi) e poi ancora i ridicì («fòmne fòmne gh’è i ridicì, i-è isé bù co l’òio fì» recitava il richiamo dell’ortolano), i virzulì, le casète, i capulì... Le erbette selvatiche sono ottime da appena spuntate.
Più crescono più vanno cotte. Oppure finiscono tritate nel pastù per oche e papere. Persino l’ortica da giovane va in minestra. Da adulta è più difficile approcciarla, tanto che l’unica cosa che è in grado di alimentare è il detto simpàtic come ’n’urtìga. E sulle ortiche si manda a fare i bisogni chi non ci è esattamente amico. Ma il meglio sono le viöle. C’è chi le mette in insalata, ma è bello anche solo ammirarle senza raccoglierle. E allora andare èn viöla (sinonimo di gita improduttiva e rilassata, anche se qui l’origine è il nome dello strumento) ha il profumo fresco della primavera.
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