«La sfida al Covid da trapiantato, nell'ospedale dei lottatori»

Camillo Rossi, direttore sanitario del Civile di Brescia, racconta il suo dolore e le terapie mai interrotte
Camillo Rossi, direttore sanitario Asst Spedali Civili - © www.giornaledibrescia.it
Camillo Rossi, direttore sanitario Asst Spedali Civili - © www.giornaledibrescia.it
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Dopo la laurea in Medicina, ha scelto di specializzarsi in Pediatria al Policlinico di Modena, lo stesso in cui ha trascorso gli anni della sua tormentata infanzia. Ed in parte anche quelli dell’adolescenza. «Per me è stata una scommessa: volevo capire come si vivesse dall’altra parte». La biografia di Camillo Rossi, che in questi giorni «festeggia» i primi dieci anni di vita con un rene che ha ricevuto in dono, è il racconto di una sfida al dolore, alla pazienza, alla «fame» di certezze pur sapendo che già pensare di cercarle era un’illusione. Ed è un messaggio positivo per tutte le 1.200 persone che sono state trapiantate di rene e che sono seguite dagli specialisti del Civile e per le circa 140 che sono in lista in un’attesa che si è allungata dopo i mesi di stop ai trapianti a causa del coronavirus.

«Ora si riprende e siamo pronti per il trapianto da vivente. In questi mesi di emergenza sono state garantite le terapie e le visite urgenti, come quelle necessarie ai nefropatici» afferma Camillo Rossi che dell’Asst Spedali Civili è direttore sanitario. Anche questo è un segnale d’ottimismo. Un segno che si può convivere con la malattia impedendole di diventare la protagonista della propria vita. La patologia renale cronica che gli è stata diagnosticata a diciotto mesi era la stessa del fratellino, morto nel 1967 quando Camillo aveva quattro anni. «Ho imparato che la mia vita, la vita di tutti, non deve dipendere dalla malattia che hai, dalla dialisi, dalle terapie che devono essere assunte dopo il trapianto» afferma.

La glomerulonefrite membranosa lo ha tormentato fino a sedici anni. Con lui, i suoi genitori che hanno vissuto una vita drammatica che li ha portati a compiere molti viaggi della speranza dal loro paesino nel cuore dell’Abruzzo - Bussi sul Tirino in provincia di Pescara - al Policlinico di Modena e negli studi dei migliori specialisti di New York. Non è guarito, ma dai sedici ai quarant’anni la patologia cronica è stata silente.

«Nel 2002 lavoravo all’Asl di Brescia, città nella quale mi ero trasferito negli anni Novanta, quando mi è stata diagnosticata l’insufficienza renale che mi ha portato alla dialisi e, nel 2006, in lista d’attesa per il trapianto di rene - continua -. Con un piccolo particolare: dai controlli per entrare in lista è emerso il sospetto di un tumore ad un rene. Me lo hanno tolto e ricordo ancora la sofferenza vissuta nelle tre settimane in cui ho aspettato il referto dell’esame istologico. Devastante. Poi, è iniziata l’attesa dell’organo. Sono sempre stato seguito dal Centro dialisi peritoneale e trapianto di rene della Nefrologia del Civile, anche se il trapianto è stato fatto a Novara, perché ero iscritto anche in quella lista».

Racconta che, pochi giorni dopo l’intervento, si è recato nella chiesa esterna all’ospedale per ringraziare. «C’è una scalinata, che ho salito con una fatica enorme, mi sembrava una montagna. Quando dovetti scendere, ero certo di non farcela. Poi, un gradino alla volta, sono arrivato in fondo. Una bella metafora della vita, come la dialisi lo è dell’attesa: devi puntare la meta, ma non devi dipendere da essa perché non sai quando la raggiungerai. Impari a guardare alla sostanza delle cose e la fede, in questo, è un aiuto reale, sempre presente». Conclude: «Dialisi e trapianto sono occasioni da non perdere, ma non si può dipendere da loro e nemmeno da un’idea di perfezione fisica che ti fa sentire inadeguato, ma altro non è che un distacco dalla realtà».

 

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