La principessa d’Afghanistan lotta per salvare la vita alle donne
Basta uno sguardo e subito la mente abbraccia orizzonti lontani. Pensa a Ruyard Kipling che in Kim, un capolavoro, celebrò la vita del subcontinente indiano, il «fardello dell’uomo bianco» imperiale e inglese, il duello fra la Corona e lo Zar nel Grande Gioco, nome reso celebre proprio da lui, scrittore e poeta britannico, per il controllo dell’Asia centrale.
La conosciamo, ancor prima dello sguardo, grazie alla sua voce profonda e cavernosa. La incontriamo, e ci sembra di leggere sul suo volto, bello di moderna conoscenza e di antica sapienza, un secolo di storia a partire da quegli augusti nonni che, al solo nominarli, le illuminano i lineamenti. Parla del suo Paese, la principessa Soraya Malek d’Afghanistan, in visita alla redazione del nostro quotidiano all’indomani dell’incontro pubblico su «L’Asia che dimentichiamo» che si è svolto nella sala consiliare del Comune di Castegnato su iniziativa dell’Associazione Adl a Zavidovici, Impresa sociale, Comunità Fraternità e lo stessa amministrazione.
I diritti delle donne
«Quello per cui mi batto sono i diritti delle donne» afferma. Sgombrando subito il campo da eventuali fraintendimenti: «La situazione è tragica da molto tempo. E tale è rimasta anche durante il ventennio di presenza occidentale in Afghanistan. Gli interessi e le convenienze di pochi hanno ridotto la popolazione alla fame. Ed ora? Credete forse che gli americani abbiano abbandonato il Paese? No, non si abbandona una terra strategicamente importante nel cuore del continente asiatico, terra di collegamento tra Asia centrale e India».
La storia
Naturale pensare, ascoltando le sue parole, allo storico Khyber Pass, cinquanta chilometri di strada testimoni della storia che li hanno attraversati almeno da quando l’uomo ne ha memoria. Importante rotta commerciale tra l’Asia centrale e il Subcontinente indiano e con una posizione militare strategica. Semplice puntino sulla grande scacchiera del Grande Gioco, sogno di generali persiani e mongoli, tomba di eserciti inglesi, sovietici e americani.
La incontriamo, il capo coperto dal «pakol», tradizionale cappello da uomo morbido utilizzato soprattutto in Afghanistan e in Pakistan. Sulle spalle, un gilet di lana spessa, anch’esso tessuto nel Paese dei suoi avi.
La nonna femminista
Soraya Malek, nata a Roma, è nipote di sovrani modernizzatori. I suoi nonni, il re Amanullah Khan e la regina Sorahya, ricordata anche come la femminista d’Afghanistan, hanno regnato dal 1919, anno dell’indipendenza dagli inglesi, fino al 1929. «Dopo il colpo di stato, sono fuggiti in esilio in Italia nel 1930 su invito di re Vittorio Emanuele III. La madre, India, è nata a Mumbai, nel primo anno di esilio dei suoi genitori.
«Gandhi aveva chiesto a mio nonno, del quale era molto amico e con il quale aveva in comune i nemici inglesi, di imporle quel nome per non dimenticare l’India. Non l’hanno e non l’abbiamo dimenticata - racconta Soraya Malek -. Io sono andata in Afghanistan per la prima volta nel 2004. Viaggiavo su un C130, un aereo militare, ed ho chiesto al comandante di indicarmi il confine e, quando l’ho visto, sono scoppiata in un pianto interrotto. Cosa ho trovato? Vedete, dal racconto della mia famiglia, dalla mia famiglia stessa, ho sempre pensato ad una popolazione molto fiera e dignitosa. Non lo era più, vessata e stremata dai signori della guerra. Sono tornata più volte perché oggi il mio impegno è quello di cercare ogni strada per ridare fiducia al popolo afghano ma, soprattutto, lavoro e dignità alle donne. L’ultima volta a Kabul è stata nel 2019, per festeggiare il primo secolo di indipendenza del Paese».
La situazione oggi
Oggi? «Mi auguro che avvenga in Afghanistan quella profonda trasformazione sociale e culturale che fu iniziata negli anni Venti grazie a mia nonna per far uscire il Paese dall’arretratezza e, soprattutto, per dissipare quell’opprimente clima di paura e di violenza alimentato dalla povertà estrema».
È complessa, la vicenda afghana, a maggior ragione oggi, con i taliban di nuovo al potere e un paese diviso, disorientato, ad un passo dal collasso economico. Un «crogiolo di etnie diverse» in cui hanno attecchito gli interessi dei Paesi occidentali, «rendendo ancora più complessa e disperata la vita della gente comune, delle donne in particolare». Conclude: «Conoscere la storia dell’Afghanistan è importante perché aiuta a comprendere anche la responsabilità dell’Occidente nei confronti di un popolo abbandonato al proprio destino, alle prese con la fame ed un regime autoritario che non lascia spazio alla libertà personale. Non possiamo fermarci: dobbiamo continuare a capire anche se, oggi, il mio stato d’animo è di angoscia per le mie sorelle afghane. Dobbiamo aiutarle. Ho sempre sostenuto l’artigianato d’eccellenza femminile. Continuo a farlo, appoggiando una rete di donne afghane che lottano per la vita».
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