La «nuova peste» fa strage anche a Brescia
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Fu tristemente chiamata la «Peste del XX secolo». L’Hiv, il virus dell’immunodeficienza umana, meglio conosciuto come Aids. Un nuovo flagello, arrivato in Italia alla metà degli anni Ottanta. A Brescia il primo caso sospetto riguardò una giovane tossicodipendente, morta al Civile per una serie di infezioni resistenti alle cure.
I medici furono prudenti nella diagnosi per non creare allarmismi nell’opinione pubblica e fra i soggetti malati e/o portatori. Il primo decesso da Aids venne acclarato nel dicembre del 1984. Un bambino sardo di due anni e mezzo, ricoverato nel reparto Infettivi del Civile. Proveniva dall’ospedale di Alghero, dove i sanitari non avevano saputo diagnosticare la malattia. La madre, un passato da tossicodipendente, era portatrice sana di Aids; il padre, anch’egli con trascorsi di droga, era in carcere per furto. Il bambino, nonostante le cure ricevute - trasfusioni, antibiotici, terapie di sostegno contro le singole infezioni insorgenti - morì nell’aprile dell’anno dopo.
Brescia, in quegli anni, era una delle città più colpite dall’Aids: la quarta in Italia per numero di vittime, nella regione che deteneva il primato nazionale. Un’emergenza sociale e sanitaria rilevante. Nel 1987, ad esempio, furono ben venticinque le persone decedute nel solo reparto Infettivi del Civile.
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