La Loveparade è una landa desolata
C'è una landa desolata nel mezzo di Duisburg che forse potrebbe diventare un mega outlet, il più grande della Germania, addirittura, ma che per ora resta, per l'appunto, una landa desolata. Al centro sorge il vecchio scalo merci, o quel che ne rimane, mentre attorno il terreno spoglio e abbandonato è chiuso tra un'autostrada e la ferrovia. È un posto che in estate ribolle e non offre alcun riparo dal sole, mentre in inverno ci accoglie con il vento freddo del nord dritto sulla faccia. È a pochi minuti a piedi dal centro della città, una ventina al massimo, ed essendo abbandonato è piuttosto silenzioso, se non fosse per il rumore del traffico e dei treni. E del vento, certo.
Ma è un posto che dal 24 luglio 2010 è un po' più silenzioso, o almeno sembra, perché vi sono morte ventuno persone, e altre seicento sono state ferite. Sono rimaste schiacciate nella folla all'altezza della rampa di accesso alla landa desolata, appena fuori dal tunnel in cui si erano ammassate migliaia di ragazzi e ragazze che volevano partecipare alla Loveparade. Come Giulia Minola, la studentessa ventunenne in vacanza con un'amica, quell'estate, e mai più tornata a Brescia. Va da sé che anche il memoriale sulla rampa ha qualcosa di desolante, con le auto che sfrecciano a due passi e con l'albero della vita, o tuia, piantato in memoria dei morti, che ha resistito quattro anni, poi è stato abbattuto perché malato e rinsecchito.
Cambio di scenario. C'è un moderno centro fiera con una bella sala per congressi, alla periferia di Düsseldorf, a pochi minuti di tram dalla parte vecchia della città costeggiata dal Reno. Per un anno, a partire da oggi, ospiterà le udienze del processo per la strage della Loveparade: 111 fino a dicembre 2018, se basteranno, perché si tratta di un procedimento penale senza precedenti. Processo mammut, lo chiamano qui, che in ogni caso finirà il 27 luglio 2020: quel giorno scatta la prescrizione, se c'è una sentenza bene, altrimenti tutti a casa.
Tra Duisburg e Düsseldorf c'è una mezzoretta di strada e uno sarebbe portato a credere che la città teatro della strage abbia voluto allontanare da sé il problema, rifilandolo ai vicini. Un po' forse è così: la fama di Duisburg è legata alla Loveparade e a una famosa strage di 'Ndrangheta (sei morti, 15 agosto 2007). Ospitò anche la nazionale italiana nel 2006, anche se ora è un ricordo secondario. Ma in fondo c'entrano le questioni logistiche: serviva un posto molto grande. Quindi vai col centro fiera.
In questa sala entreranno dieci persone accusate di omicidio colposo e lesioni colpose. Sono Jürgen Dressler, Anja Geer, Reimund Düster, Ralf Janowski, Peter Gottlieb, Ulrich Borns, Johann Stephan Sasse, Günther Spohr, Lutz Gerhard Wagner, Kersten Sattler. Non dicono molto a noi italiani, ma nemmeno ai tedeschi.
Sono pesci piccoli, tutto sommato, che hanno lavorato nella catena organizzativa all'interno del Comune, che vedeva nel raduno techno un'opportunità di rilancio della città, e della Lopavent, la società che gestiva l'evento. Lo scetticismo che accompagna l'avvio delle udienze è legato al fatto che né l'ex sindaco Adolf Sauerland, né l'imprenditore Rainer Schaller, e nemmeno i membri della Polizia siano coinvolti nel processo. Insomma: finisce alla sbarra chi ha messo le firme, non chi ha preso le decisioni pesanti, è la critica ricorrente.
«Il nostro sistema penale funziona così: qui in Germania Schettino non sarebbe stato condannato, avrebbero preso il timoniere», mi spiega Alfons Winterseel, giornalista che segue da tempo il caso. Forse esagera, ma rende l'idea: la corresponsabilità dei vertici non è prevista. La condanna dei manager della ThyssenKrupp per il rogo in cui a Torino persero la vita sette operai, in Germania non sarebbe mai arrivata, dice l'avvocato Daniel Henneke Sellerio, avvocato della madre di Giulia Minola, Nadia Zanacchi (tra l'altro sono ancora liberi, i due manager tedeschi, nonostante la condanna in Cassazione).
Davanti alla landa desolata, alla tuia rinsecchita, alle indagini infinite e pure al centro fiera tirato a lucido, davanti a tutto questo, dicevamo, uno potrebbe perdere la forza, se non il senno, per andare avanti.
Ma da oggi Nadia Zanacchi sarà qui, assieme ai genitori delle altre vittime, per seguire il processo e chiedere due cose semplici: verità e giustizia. «Non possiamo fare altro, c'eravamo il primo giorno e ci saremo anche l'ultimo – dice -. Lo dobbiamo a tutte le vittime». Per la morte di Giulia le era stato proposto un risarcimento talmente ridicolo, duemila euro, che non ne vuole nemmeno più parlare. E chissà che nel frattempo non le tocchi vedere anche la nascita del super centro commerciale, alla prossima commemorazione. Probabilmente c'è un limite anche alla desolazione, ma in questa storia non l'ha ancora scoperto.
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