La famiglia rifugiata dal Pakistan perseguitata in patria e minacciata in Italia

Il padre di una famiglia già perseguitata in patria chiede protezione soprattutto per le figlie
Due ragazze di nazionalità diversa di spalle (foto simbolica) - Foto © www.giornaledibrescia.it
Due ragazze di nazionalità diversa di spalle (foto simbolica) - Foto © www.giornaledibrescia.it
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Perseguitati in patria, minacciati in Italia. Minacce pesanti, indirizzate alle figlie ventenni, che «potrebbero subire la stessa sorte di Saman Abbas, la giovane uccisa in Emilia e il cui corpo non è mai stato trovato».

Con una differenza non da poco: Saman, così come le bresciane Sana Cheema e Hina Saleem, sono state uccise in ambito familiare. Le minacce alle ventenni, invece, arrivano da connazionali. Tanto da spingere il padre Saleem (nome di fantasia) a prendere carta e penna e scrivere al ministro dell’Interno Lamorgese «affinché salvi e protegga la vita della mia famiglia, in particolare quella delle mie quattro figlie, a causa delle gravi minacce ricevute».

Il coraggio di scrivere

Per trovare il coraggio di scrivere, e di rivolgersi alle autorità giudiziarie per raccontare quello che sta accadendo a lui e alla sua famiglia, Saleem ha guardato più volte quei preziosi passaporti blu, documenti di viaggio per rifugiati, con impresso sulla copertina in caratteri dorati il riferimento alla Convenzione del 28 luglio 1951. È la Convenzione di Ginevra che si è ricordata proprio in occasione della Giornata mondiale per il rifugiato del 20 giugno, l'altro ieri. Prevede che tutte le persone costrette a fuggire dal loro Paese hanno il diritto di essere protette e ricostruire le loro vite, senza distinzioni. Il passaporto blu dell’Unione europea, quindi, è molto di più di un documento di viaggio per Saleem e la sua famiglia. Quando gli è stato consegnato, è stata loro tacitamente fatta una promessa: da quel giorno avrebbero potuto ricostruire la loro vita in dignità e sicurezza.

«Risparmiate i cadaveri delle mie figlie»

Invece, l’onda lunga di radici patrie, in cui si intrecciano interessi, appartenenze religiose e di casta, schemi arcaici di risoluzione violente delle controversie familiari e di gruppo etnico, non si cura dei circa settemila chilometri che separano Brescia da Karachi, città di origine di Saleem, o dal Punjab, la regione più popolosa del Pakistan da cui proviene la quasi totalità degli immigrati residenti nel Bresciano. C’è un passaggio, nel racconto di Saleem, che fa gelare il sangue: «Nel malaugurato caso in cui chi mi minaccia uccida una delle mie figlie, sollecito e richiedo che la leadership della comunità pakistana e araba informi gli assassini di risparmiare i cadaveri delle mie figlie in modo che io possa organizzare un funerale e una sepoltura islamici adeguati».

L’angoscia ha guidato le azioni del padre. La paura, invece, abita gli sguardi delle figlie che non si muovono più, perché temono che qualsiasi passo possa essere quello fatale. Il terrore, invece, si è diffuso anche in Pakistan, dove la famiglia di origine teme ritorsioni. «Ci siamo rivolti alle autorità italiane perché abbiamo completa fiducia nel Paese che ora è anche nostro» afferma Saleem. In Pakistan lui temeva per la sua sicurezza, sottovalutando, forse, la capacità di alcuni gruppi di ricreare anche in terra di emigrazione lo stesso schema intimidatorio adottato in patria. Tensioni a sfondo sociale e religioso che si intrecciano con interessi economici e schieramenti politici e che si spostano insieme alle persone.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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