La corsa nella Grande Mela per sconfiggere il tumore

Tre bresciane nel progetto di Gabriele Rosa. Patrizia: «Riusciremo a terminare la gara, così come riusciremo ad uscire dalla malattia».
New York, maratona in rosa
AA

Era una giornata di inverno come molte altre, quel martedì mattina di fine gennaio, quando Patrizia si è recata all’ambulatorio di via Marconi per l’annuale mammografia. Quasi un rito, che si consuma per abitudine, senza focalizzare troppo il pensiero su quanto sia importante. Quella giornata, per Patrizia, è stata l’inizio di un incubo.

«Quando la radiologa mi ha detto che sentiva un nodulo, che poi ha trovato, sono scoppiata a piangere. Inutili le rassicurazioni sul fatto che non c’era ancora nulla di sicuro, che si doveva ancora approfondire, che sarebbero serviti altri esami - racconta -. In quell’attimo, ho pensato a mia figlia, in tenerissima età, ed ho iniziato ad avere una forza enorme. Quella che ti viene non perché sei speciale, ma perché non hai alternative. Perché è l’unica strada da percorrere: in gioco è la tua vita e ce la devi mettere tutta per non cadere preda delle debolezze e della fatica. Ce la fai, ma è durissima».

Incontriamo Patrizia Fada alla vigilia della partenza per New York, dove il 2 novembre parteciperà alla Maratona insieme ad altre due bresciane, parte del gruppo delle dieci donne lombarde- di età compresa tra i 36 e i 55 anni - che da mesi si sta allenando con la supervisione di tecnici di Gabriele Rosa nell’ambito del progetto promosso dalla Rosa&Associati con il supporto scientifico della Fondazione Veronesi.

«Quando, dopo una serie di controlli, mi hanno detto che potevo partecipare alla maratona, ho provato una felicità immensa - racconta -. Con le altre sportive, spesso parliamo e facciamo un parallelo tra la corsa di New York, che sarà un’eperienza entusiasmante, ma certamente faticosa lungo i 42 della Grande Mela, e quella del tumore. Entrambe impegnative, ma che vogliamo portare a termine con successo».

Patrizia ripercorre i mesi della malattia, dalla diagnosi all’intervento chirurgico durante il quale le è stata praticata una mastectomia perché «avevo il seno e i capezzoli pieni di cellule tumorali». Ricorda di essersi svegliata con un seno già ricostruito e con un senso totale di smarrimento. «Non è stata una passeggiata, soprattutto perché pensavo a mia figlia e a come avrebbe reagito nel vedermi cambiata - continua -. Ma il peggio è stata la chemioterapia. Devastante e drammatica. Ho sofferto moltissimo sia per il dolore sia per il deturpamento fisico. Facile dire che l’aspetto esteriore non conta, che l’importante è curarsi e guarire. Ma lo si dice quando non si prova a non avere più i capelli e le ciglia, quando non si ha il viso gonfio e deformato dai farmaci e dal cortisone, quando non si ha un colore della pelle giallo sbiadito, come fosse lo specchio dell’animo. Ero orribile, ma non avevo alternative. Dovevo essere forte per mia figlia, dovevo mettere la parrucca per evitare che lei, quando andavo a prenderla a scuola, si trovasse nel doloroso imbarazzo di spiegare ai suoi compagni perché la mamma era senza capelli, o perché all’improvviso girasse con una bandana colorata».

Poi, l’incontro con Gabriele Rosa e il suo gruppo. Con la prospettiva della maratona. «È stato mio marito che, un giorno, mi ha mandato per posta l’annuncio in cui si cercavano donne con il tumore al seno disposte ad allenarsi per partecipare alla maratona di New York. Mi aveva scritto: l’è el tö, è il tuo - continua -. Così, mi sono avvicinata a questa avventura, forte del fatto che prima di ammalarmi ho sempre fatto sport. Mi sono presentata alla selezione ed ho iniziato questa sfida. In questi mesi mi hanno insegnato a correre con metodo ed ho imparato a resistere alla fatica. Quando mi hanno scelta per la maratona, avrebbero voluto accompagnarmi anche mio marito e mia figlia. Poi, no. Lui ha preferito rinunciare, perché questo è un momento mio, una sfida che segna la fine di un periodo che mi ha profondamente trasformata».

Patrizia si emoziona e fatica a trattenere le lacrime. Poi, con forza, dice: «Non ringrazio la malattia, perché sono stata malissimo. Perché il tumore ha messo in gioco, e in pericolo, me stessa e le persone che mi stanno accanto. È vero che avere una malattia grave ti fa capire che puoi affrontare la vita in modo diverso, ma da qui a ringraziarla... Ti aiuta, questo sì, a dare il giusto valore alle cose e a considerare secondari aspetti che sono sempre stati tali, senza che me ne fossi accorta».

Anna Della Moretta

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia