L'inferno degli sciacalli digitali
Il corpo di un uomo sull’asfalto, a faccia in giù. Una moto imbizzarrita lo ha appena falciato e ucciso. La moglie in ginocchio urla una disperazione che è un ruggito, copre con le braccia i resti di una famiglia. Clic.
Dal marciapiede di via Lamarmora, teatro dell'incidente, un ragazzo fa le foto con il telefonino. Una sequenza studiata, diverse inquadrature. Fa anche un video. Le prime le manderà alla nostra redazione, con l’ambizione di vederle pubblicate. Il secondo rimbalzerà nelle chat di Whatsapp e pure su Facebook, virale come il disturbo che spinge una persona a compiere un gesto simile. Lo stesso di chi invia, condivide, inoltra con smania.
Può il desiderio di dire «io c’ero» soffocare l’umanità? Sì, lo abbiamo visto accadere in alta definizione sugli schermi dei nostri smartphone. Stavolta però non si tratta di pericolose goliardate, momenti di intimità violati e messi in piazza. Non c’è nessuno da schernire o ricattare. Qui c’è perversione, godimento nell’immortalare il dolore degli altri.
Nell’inferno degli sciacalli digitali, siamo scesi ancora di un girone. Non è solo l’indecenza del singolo che ci deve allarmare, piuttosto la tolleranza di tutti gli altri, che assecondano e alimentano la sua folle iniziativa. Passi l’esibizionismo estivo in ciabatte, ma qui stiamo assistendo a una deriva etica. E per dirla nel linguaggio dei social, ora l’unico augurio a cui ci si deve aggrappare è #restiamoumani.
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