«Il tormento: avrei potuto fare di più?»

La tragedia e il senso di impotenza di chi ha lavorato a contatto con i pazienti più gravi contagiati dal coronavirus
Un reparto di rianimazione - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
Un reparto di rianimazione - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
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Prosegue la pubblicazione delle testimonianze di «Cuori in prima linea»l'iniziativa promossa da Giornale di Brescia e Intesa Sanpaolo: abbonamenti trimestrali gratuiti al GdB in versione Digital per il personale sanitario e la possibilità per gli operatori che hanno affrontato la pandemia in tutta la sua durezza - professionale e psicologica -, di raccontare le storie vissute durante la pandemia per farne un prezioso patrimonio di testimonianze da preservare.

Le storie possono essere inviate all'indirizzo email cuorinprimalinea@giornaledibrescia.it.

Sono infastidita, sento un rumore che mi disturba, di colpo spalanco gli occhi e mi accorgo che è la suoneria del cellulare a svegliarmi... cavoli è già mattino, mi sembra un attimo fa che ho terminato il turno di giorno (14 ore) e già devo ricominciare. Questi giorni hanno un sapore strano, sono solo un insieme di ore e non rispettano più l’alternarsi del giorno e della notte; sono tutti uguali e tutti pieni di fatica, sofferenza ed impotenza. Come tutte le mattine vado in cucina e davanti ad una tazza di caffè accendo la Tv e come sempre guardo i numeri dei nuovi contagiati, dei morti e di chi ce l’ha fatta, in silenzio, togliendo l’audio perché fa meno male. In questo modo mi rendo conto che in quei numeri ci sono anche i miei pazienti e i miei fallimenti.

Per fortuna ho poco tempo per pensare perché la mia collega passa a prendermi alle 7,30 e come un soldatino mi faccio trovare pronta, porto con me poche cose: un cambio per la doccia a fine turno e un cuore gonfio di rabbia perciò che non riesco a fare e la forza di lottare ancora un giorno insieme ai miei colleghi per chi è più sfortunato di me. Un viaggio breve, pochi chilometri e strade deserte; io e Chiara abbiamo il tempo di ridere e sdrammatizzare rimandando di qualche minuto il carico di sofferenza che ci verrà scaricato dai colleghi che hanno traghettato l’ospedale durante la notte. Il momento delle consegne è arrivato, facce stanche, occhi vuoti leggono appunti e numeri che accomunano tutti questi pazienti, le loro storie personali vengono sempre di più tralasciate perché in questo modo cerchiamo di non far entrare nelle nostre vite le loro vite, però non sempre, o quasi mai, ciò è possibile.

Per formazione sono abituata a collocare un paziente in un contesto sociale e familiare e ad interagire con i parenti, ma anche questo non esiste più; solo una telefonata frettolosa per dire «condizioni gravi» e via un altro numero, un’altra tragedia e altre voci alle quali non dare mai un volto. Ricerco nei corridoi dei reparti le persone che ho curato e con le quali ho parlato il giorno prima sperando di vedere qualche miglioramento. Per molti di loro è difficile parlare ma basta guardarli negli occhi perché in questi vedi la sofferenza, la richiesta di aiuto. Sono questi occhi che mi trafiggono l’anima ed il cuore, perché ho scelto di essere un soldato al quale non hanno dato un armatura e delle armi adeguate a combattere, tutto ciò che ho sono poche cose e con queste ho dovuto fare tanto; ma so che non è stato sufficiente. Se avessi avuto di più? In questo momento ho solo un grande vuoto e la certezza che prima o poi dovrò riempirlo.

Antonella Prandini - medico rianimatore ospedale di Manerbio

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