Il saluto di Agabiti Rosei al Civile e all’Università

In pensione dopo 39 anni tra ospedale e Ateneo: «Ho vissuto i cambiamenti in meglio della medicina»
Protagonista. Il professor Enrico Agabiti Rosei
Protagonista. Il professor Enrico Agabiti Rosei
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Nel settembre 1978, quando è arrivato a Brescia da Perugia, era un giovane medico internista. Allora l’Università di Brescia non era ancora nata e gli insegnamenti venivano impartiti da docenti degli Atenei di Parma e di Milano e nelle sue intenzioni quella di Brescia doveva essere solo una tappa, un capitolo certo importante, ma non il «libro» della sua vita.

Invece, il professor Enrico Agabiti Rosei è rimasto per 39 anni, la metà dei quali ai vertici della Clinica di Medicina interna e Seconda Divisione di Medicina generale dell’Ospedale Civile e del Dipartimento di Medicina universitario e della Scuola di specializzazione.

Clinico ed educatore in un periodo in cui è nata l’Università ma, soprattutto, in cui c’è stata un’evoluzione senza precedenti della Medicina. Un dato su tutti: negli ultimi quarant’anni gli italiani hanno guadagnato quattordici anni di vita. Un successo dovuto, in parte, alle tecnologie sempre più sofisticate e alle specializzazioni.

Ma non solo. «Quando divenni responsabile della Clinica medica al Civile nel 1998, molti ritenevano che la medicina interna fosse agli sgoccioli, proprio perché la tecnologia progrediva ad una velocità impressionante e la ricerca forniva nuove possibilità diagnostico-terapeutiche - racconta Agabiti -. Insomma, si pensava che la chiave di volta fosse nelle specializzazioni. Evidentemente, nessuno allora aveva letto, o ricordava, i Fratelli Karamazov».

Cita Dostoevskij che, nella Russia del 1879, scriveva: «È sparito il dottore di una volta. Ora ci sono gli specialisti – Ti si ammala il naso? Ti spediscono a Parigi: là (ti assicurano) c’è uno specialista di fama europea. Arrivi a Parigi e quello ti dice: io vi posso curare soltanto la narice destra, perché le narici sinistre non rientrano nella mia specialità».

«È vero che gli internisti coltivano settori specifici, ma nell’ambito di una visione ampia della persona, dei suoi problemi di salute, delle possibilità di prevenire alcune patologie attraverso corretti stili di vita ed eliminando i fattori di rischio, tra cui su tutti prevale l’ipertensione, ancora oggi tra le principali responsabili di gravi patologie cardiovascolari, tristemente ai primi posti tra le cause di morte, e questo malgrado vi siano cure in grado di prevenirle» continua.

Dalla fine degli Anni Settanta ad oggi il mondo è cambiato. «Cambiamenti rilevanti sotto tutti i profili: epidemiologico, economico e sociale, oltre che tecnologico - aggiunge -. Questo ha comportato che una fetta sempre più ampia di popolazione conviva con più patologie croniche che richiedono competenze che la medicina, madre di tutte le specializzazioni, può garantire».

L’argomentare di Agabiti è pacato, ma si infervora quando lancia un appello ai suoi colleghi medici: «Servono competenze, ma serve soprattutto la capacità di stabilire una relazione con il paziente che, proprio perché ha più patologie ed un’aspettativa di vita che si allunga, vive una realtà complessa.

Solo un’alta professionalità, unita ad altrettanto elevate capacità umane e all’appropriatezza delle prestazioni, riusciranno a far sopravvivere il nostro sistema sanitario nazionale di carattere universalistico in un’epoca di budget sanitari ben definiti».

In questo contesto, ci sono ancora molte criticità da superare. Per Agabiti, la «medicina non è ancora organizzata per la complessità. Basti pensare che il pagamento in gran parte avviene ancora in base alle singole patologie, attraverso i Drg, e non nell’ambito di una valutazione di insieme delle condizioni di salute della persona, spesso anziana e con più patologie concomitanti».

La recente legge regionale sulla cronicità sta cercando di mettere «ordine» in questa complessità. «A dire il vero, in una direzione coraggiosa che prevede una stretta interconnessione tra sanitario e sociale - aggiunge Agabiti -. Ed anche difficile, perché deve far convivere due complessità. Da una parte, quella che è frutto della ricerca e che va sempre più nella direzione della medicina di precisione; dall’altra, quella legata alla possibilità di curare un numero sempre maggiore di malattie. Con un rammarico: pur disponendo di farmaci efficaci, come quelli per la pressione arteriosa, un’alta percentuale di pazienti non li assume. Quindi, è come se non ci fossero. Un tragico paradosso. L’aderenza alla terapia è fondamentale ed in larga misura è legata proprio al rapporto di empatia che si crea tra medico e paziente. Una volta era molto forte e ora deve essere recuperato, tenendo conto della complessità della Medicina e dei pazienti, sempre più anziani e fragili».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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