Il roaiòt e l’articiòc nell’orto della vita
Un orto è molto più di un pezzo di terra. Ce lo insegna la rubrica sapidamente coltivata da anni qui a lato. Nell’orto del dialetto, poi, maturano talvolta semi antichi e danno frutto radici che affondano in culture (e colture) lontane.
La stessa parola bresciana órt nasce dalla latina hortus, che a sua volta sembra legata ad una radice celtica ghorto - (quella che sboccia ad esempio nell’inglese garden) che significa recinto. Ma talvolta l’orto dei bresciani viene anche chiamato ciós, uso che ci arriva dal latino tardo clusus. Proprio come quell’hortus conclusus tra le cui mura protettive nel Medioevo si coltivavano fagioli e verza.
Proviamo allora a passeggiare tra le còle (i lunghi rettangoli coltivati che noi chiamiamo così proprio dal latino còlere, coltivare). Vi troviamo - tra l’altro - il roaiòt (i piselli, che noi bresciani evochiamo con termine analogo a quella rovaja umbra, il pisello selvatico o robiglio, che oggi è riscoperto come presidio da Slow food), l’articiòc (il carciofo come nel tedesco artischocke e nel francese artichaut, probabilmente a loro volta da un antico ispano-arabo), il pedersèm (che per gli italiani è prezzemolo ma che qui da noi fa memoria addirittura del greco petrosèlinon, sedano delle pietre) e la patata (che attraverso gli spagnoli ci arriva dalla lingua quechua andina papa).
C’è poi un orto metaforico. Quello evocato ad esempio per respingere col sorriso le petulanti insistenze di amici e conoscenti: «Gnàri, sif dré a vangàm l’órt?». O per dire con grazia di qualcuno difficilmente digeribile: «Ìghen zó una còla...».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato